Unesco ancora generosa: la via Appia opera di un aquilano
di Redazione | 09 Maggio 2022 @ 06:00 | CULTURA
C’è un po’ di orgoglio civico nella candidatura ministeriale della Via Appia Antica a Patrimonio Unesco. Il suo progettista – 23 secoli fa – e direttore dei lavori, Appio Claudio Cieco, è di origine aquilana (271 a. Cr.): dell’antico borgo sabino di Amiterno, patria pure di Sallustio. Caecus, fu soprannominato così per una patologia oftalmologica di una doppia cataratta o, come riferisce la leggenda, per le conseguenze dell’ira divina contro il suo credo sincretico, teso ad unificare, infatti, il paganesimo greco-romano con i riti celtico-germanici. Grande fu la sua azione tecnico-professionale, ma anche la carriera politico-istituzionale e la produzione filosofica e letteraria.
Per stare alla Via Appia Antica, essa era nota come “regina viarum” ovvero eccellenza dell’intero sistema delle arterie consolari (si sviluppavano per circa 120mila km., in Italia). La creazione dell’infrastruttura rappresentò la più rilevante impresa di ingegneria civile del mondo allora conosciuto. Voluta dal nostro illustre concittadino, per consentire all’esercito capitolino il controllo rapido del Mezzogiorno, la strada inizialmente arrivava a Capua. Successivamente, il terminale dell’Appia approdò a Benevento, per concludersi a Brindisi, il più attivo porto dell’epoca, assai ben collegato ai traffici della Grecia e dell’Oriente.
Appio Claudio Cieco, di nobile schiatta, nello sfolgorante curriculum politico fu sempre sostenuto da un’azione riformatrice a fianco delle classi plebee. Quel che in Senato gli alienò non poche simpatie della gente che contava nel “palazzo”, dove il N. riuscì comunque ad imporsi. Da citare pure la progettazione nella caput mundi del megacquedotto eponimo a servizio pure di un vasto territorio suburbano. Insomma, un professionista in gran spolvero, le cui origini in provincia, avevano finito per irrobustirne competenze in tutti gli ambiti della vita sociale e qualità umane nelle relazioni. Morì a Roma nel 350 a. Cr. quale miglior esempio di self-made-man, premiato dall’ascensore sociale dell’era repubblicana, all’insegna di un suo aforisma, tramandato – pensate un po’ – da un cosiddetto Pseudo Sallustio, che trascrisse: «fabrum esse suae quemque fortunae», reso nel celeberrimo: Ognuno è artefice del proprio destino.
Quasi ad indicare un po’ quel che capita a tantissima gioventù nostrana, costretta fuori del territorio a cercare, in svariati casi riuscendo con successo, lo sbocco professionale, qui negato. Mentre l’Unesco, che ha già ammesso in qualche modo un nostro blasone nell’Elenco del Patrimonio mondiale, torna di fatto a valorizzare ancora una nostra risorsa… de ‘na ‘ote!