di Giulia Marinucci – A Perugia, durante il prestigioso Festival del Giornalismo, i riflettori sono tornati sull’Aquila. Parole forti a smascherare di fronte all’Italia una realtà che non è quella che è stata dipinta. A parlarcene vi sono alcuni tra i maggiori esponenti del giornalismo italiano, come ad esempio Maria Luisa Busi del Tg1, Stefania Ulivi del Corriere della Sera, Roberta Mancinelli di RAI Abruzzo. Tra gli ospiti della serata vi è anche Ferdinando Di Orio, rettore dell’Università dell’Aquila.
La serata si apre con un filmato di Stefano Schirato, noto reporter di fama nazionale e internazionale; il filmato si intitola “Sulle rovine di noi” e racconta attraverso un preludio di immagini l’Aquila dall’immediato post-terremoto fino ad oggi. «Oggi la città è ancora un groviglio di impalcature», commenta Roberta Mancinelli. Guardando il filmato viene da chiedersi immediatamente in che modo Stefano Schirato sia riuscito a condurre un lavoro di un tale impatto emotivo; è lui stesso a dircelo: «A Chernobyl mi colpiva l’aria di rarefazione che si respirava, a Sarajevo il fantasma della guerra che aleggia ancora tra le nuove generazione. All’Aquila, invece, che sento ancor più vicina perché è anche la mia storia, mi colpisce tantissimo quest’espropriazione della città, espropriazione della vita. È questo che ho voluto cercare di raccontare in questo lavoro».
Ma nonostante la disgregazione sociale, nonostante la polverizzazione del tessuto sociale, esiste ancora un “città nella città”, come la definisce la stessa Roberta Mancinelli. Stiamo parlando chiaramente dell’Università dell’Aquila, che ci viene raccontata dal suo più alto esponente, il rettore Ferdinando di Orio: «L’Università dell’Aquila è stata distrutta completamente dal sisma. Io ho lamentato spesso, lo faccio anche qui in questa occasione, una forma di “sindrome di Stoccolma” che ha preso i rappresentanti delle istituzioni aquilane. In un primo tempo non c’era rappresentazione del terremoto che non fosse laudativa, da parte di coloro che ci stavano portando soccorso con grandi ringraziamenti e spesso in modo anche un po’ scomposto. Nella realtà, ricominciare significava ripartire praticamente da zero, avendo da un lato l’indifferenza delle istituzioni e dall’altro giudizi traccianti che ci dicevano “Aggregatevi alle altre sedi universitarie”. Noi invece abbiamo lasciato tutti i corsi nell’Università dell’Aquila, siamo ripartiti di nuovo il 29 di ottobre, quando tutti ci davano per morti. Abbiamo preso capannoni industriali e li abbiamo fatti diventare aule, abbiamo raccolto anche le lacrime e le sofferenze quando abbiamo dato lauree alla memoria ai nostri cinquantasette studenti morti e poi, siamo ripartiti. Ecco, da questo punto di vista devo dire che, forse, la vittoria dell’Università dell’Aquila è la vittoria di un’istituzione che non si è arresa al conformismo generale, che non ha preso parte alla “sindrome di Stoccolma” che ha preso i nostri amministratori locali e che, soprattutto, ha capito che la salvezza dell’università è la salvezza della città e la salvezza della città è la salvezza dell’università. »
La Sala Lippi, dove si è tenuto l’evento, era piena di gente. Ogni minimo brusio viene interrotto, improvvisamente, dalla proiezione di un nuovo filmato. Tratto dal film “Colpa Nostra” di Giuseppe Caporale, riguarda da vicino il servizio pubblico italiano. “Non possiamo da soli far vedere che all’Aquila è tutto come un anno fa. Allora io chiedo l’aiuto delle istituzioni, chiedo l’aiuto dei cittadini; ma chiedo anche l’aiuto dei giornalisti, di tutti i giornalisti di destra e di sinistra; chiedo di mostrare un lato diverso di questa tragedia.”, sono le parole di un uomo che nel video si rivolge alla giornalista Maria Luisa Busi di Tg1. Con occhi quasi lucidi, dopo la visione del filmato, è la stessa Maria Luisa Busi a commentare: «L’Aquila è diventato un luogo meta-politico, perfetto per rappresentare il populismo mediatico. Il centro storico è un’offesa al mondo, i potenti della terra hanno attraversato quel centro storico con la fanfara di quel momento e l’acume di propaganda. Non c’è niente di più pornografico, di più volgare dell’approfittare di un luogo in cui c’è il dolore della morte e la morte del lavoro. Credo che non sia mai avvenuta nel nostro Paese una rappresentazione così volgare. Si resta legati all’Aquila, forse perché è la metafora del nostro Paese. » A quel punto, Roberta Mancinelli le rivolge una domanda: «Quel filmato è stato girato nel 2010, qualche mese dopo tu lasci la redazione del Tg1. Quell’episodio ha influenzato la tua scelta?”» Un breve silenzio. «Quell’episodio è stato il motivo della mia scelta perché la gente gridava vergogna.» Segue un lungo applauso.
Prende la parola un giornalista aquilano, Angelo Venti. «Nel momento delle macerie e della commozione, tutte le televisioni parlavano dell’Aquila; i giornalisti alloggiavano negli alberghi e si muovevano accompagnati dalla Protezione Civile. Questo è esattamente ciò che noi, a quei tempi, definimmo “Modello Bagdad dell’informazione applicato per la prima volta in Italia”. Poi, quel momento è passato e, oggi, l’Aquila è esattamente uguale a tre anni fa. »
In questo clima, nasce la necessità di avere una voce , di dare una voce. È l’obbiettivo di Stefania Ulivi del Corriere della Sera, che insieme ad altri 15 giornalisti fonda “La 27ora”, una piattaforma virtuale all’interno della quale 27 donne del territorio aquilano raccontano la propria storia. «L’intento non è di dare voce alle donne, ma di parlare di temi che difficilmente finiscono nelle pagine dei quotidiani».Viene allora proiettata la storia di una di queste donne, Simona Giannangeli, un avvocato che si occupa di uno dei processi simbolo, quello della Casa dello studente. Dopo la visione del filmato, Stefania Ulivi commenta: «L’immagine dell’Aquila rimanda ad alcune scene di guerra. Se tu cammini di sera nelle strade aperte del centro storico vedi i militari, ascolti i passi rimbombare nel silenzio e in lontananza l’unica radio dell’unico locale aperto. Questa è assolutamente un’immagine di guerra. Bisogna rendersi consapevoli che se riparte l’Aquila riparte il nostro Paese. Tuttavia l’Aquila è una città che da fastidio, perché ci sono le inchieste, perché ci sono dei ragazzi che sono andati a dormire in una casa dello studente e che non si sono risvegliati ed è una cosa che forse ci riguarda se in un Paese in cui si parla tanto di sicurezza, non siamo in grado di avere la prima sicurezza che è quella di dormire tranquilli nella propria casa. 309 morti non li ha ammazzati il terremoto, li ha ammazzati un modo criminale di costruire e di ristrutturare. »
Parole dure, taglienti come la lama di un coltello. Il festival si conclude, è ora di lasciare Perugia. Siamo increduli quando vediamo che sul nostro stesso treno c’è anche Maria Luisa Busi del Tg1.
Ci avviciniamo a lei, le chiediamo se possiamo farle alcune domande. Ci accoglie con molta gentilezza e ci fa accomodare vicino a lei. Le domande sono riportate di seguito.
Giulia Marinucci: Dopo gli interventi di oggi all’interno del prestigioso Festival del Giornalismo, quali sono state le sue impressioni?
Maria Luisa Busi: «Mi ha colpito molto quello che diceva il rettore, questa denuncia pubblica che ha fatto sia dei temi a me più cari come la propaganda e sia l’abbraccio delle istituzioni locali a quel modello di propaganda. Questa è stata una denuncia molto forte, una cosa che mai nessuno aveva detto. Poi mi ha colpito molto il lavoro della collega del Corriere della Sera, il riprendere le fila di un lavoro antico di fare questo mestiere e cioè di andare sul campo e far parlare le persone, fare un passo indietro rispetto alle persone che sono la notizia. Questo è il vero Giornalismo. »
Giulia Marinucci: Come valuta l’approccio dei media nazionali nell’immediato post-terremoto e adesso, a distanza di tre anni?
Maria Luisa Busi: «Nella prima fase c’è stata una grandissima mobilitazione generale. Quando sono andata all’Aquila mi sono riferita a fonti istituzionali, ho cercato giornalisti di free-press, free-lance, che già da mesi seguivo e devo dire che nel territorio hanno fatto davvero un grandissimo lavoro anche per contrastare questo accentramento e controllo di quell’organismo della Protezione Civile che si chiamava proprio “Comando e Controllo”che ha sicuramente inficiato non tanto la prima parte del terremoto quanto il momento immediatamente successivo. Io stessa ci sono andata undici mesi dopo e non mi era mai accaduto di dover passare un’intera giornata per cercare l’autorizzazione per svolgere il mio lavoro. Ero stata in altri terremoti, come ad esempio in Umbria e nel Molise, e non mi era mai capitato di dover passare un’intera giornata per avere le autorizzazioni per poter parlare con le persone oltre che per entrare nei luoghi; questo mi sembrò molto strano. Sono tornata lì undici mesi dopo, quando ho avuto l’autorizzazione della direzione; solo un certo numero di colleghi, infatti, potevano avvicinarsi. Questo, ripeto, è stato molto molto strano. Mi domando a questo punto cosa siano stati davvero i primi mesi. Quando si è passati poi alla fase della ricostruzione delle case, o meglio alla costruzione di nuovi quartieri dormitorio, perché in fondo di questo si tratta all’Aquila, in quel preciso momento è scattata a pieno titolo una propaganda perfetta del modello culturale del populismo mediatico. A tre anni di distanza, si ricordano gli anniversari o gli eventi clamorosi come le manifestazioni che ci sono state. Oggi, il grande rischio che si corre è che l’intera città e i suoi settantamila abitanti finiscano nell’oblio. »
Giulia Marinucci: Un’ultima domanda: se oggi dovesse realizzare un reportage sull’Aquila, quale tematica affronterebbe?
Maria Luisa Busi: «Quella del lavoro, senza dubbio. All’Aquila è stato ucciso il lavoro. Avere l’800% della cassa integrazione vuol dire avere un’economia completamente ferma, vuol dire che la gente inizierà a vendersi qualcosa. Le prospettive nel presente sono terrificanti, si pagano le tasse di nuovo, si pagano mutui per case che non si hanno più, si è perso anche il lavoro. Tutti i progetti che c’erano sul campo, come ad esempio quello di fare una zona franca, mi sembra che siano caduti completamente nel vuoto. Questo lo trovo estremamente preoccupante. L’unica cosa davvero positiva è che io vedo una grandissima vitalità culturale, una grandissima mobilitazione dei giovani che vogliono riprendersi la loro città e soprattutto il loro tessuto sociale. Questa è una delle caratteristiche dell’Aquila ma è anche una grande caratteristica italiana, che dobbiamo enormemente rispettare e supportare in tutti i modi possibili.»