
Il decreto è datato 15 maggio. Appena quattro giorni dopo, il terremoto in Emilia ha fatto crollare non solo capannoni e campanili, ma anche l’ultimo provvedimento del governo: quello che riformava la Protezione civile, aprendo l’era del dopo Bertolaso. Polemiche, dure critiche, minacce di ricorso alla Corte costituzionale da parte di sindaci e governatori, nelle settimane precedenti all’approvazione del provvedimento, non avevano fatto desistere l’esecutivo dal colpo di mano. Un provvedimento di urgenza che mette le briglie ad altri provvedimenti di urgenza. Quelli della Protezione civile, le famigerate “ordinanze” sul cui abuso nell’era Bertolaso-Berlusconi sono stati scritti – quand’era ormai troppo tardi – fiumi di parole. E spesi fiumi di denaro. Il governo della sobrietà, ora, voleva mettere ordine nella materia e – specialmente – risparmiare. Ma i tecnici hanno combinato un pasticcio. E siccome nell’Italia delle catastrofi annunciate la natura non perde tempo, sono bastati quattro miseri giorni a dimostrare che l’ultima gravidanza del governo aveva partorito un mostro. L’ex amatissimo premier Monti, in visita nelle zone del sisma, ha udito gli effetti del disastro nelle urla dei cittadini: «Vergogna». Proprio a lui, che del bon ton ha fatto uno stile di governo.
L’efficiente macchina degli aiuti
Eppure la Protezione civile emiliana ha agito con un’efficienza che neppure super Bertolaso avrebbe potuto vantare: «La macchina dei soccorsi si è messa in moto in un’ora. Verso le 10 del mattino, 6 ore dopo la scossa, avevamo istituito dei punti informativi in ogni Comune: i cittadini vi si potevano rivolgere per avere informazioni e compilare schede tecniche di sopralluogo, necessarie per avere verifiche sull’agibilità degli immobili da parte dei Vigili del fuoco», racconta Stefano Calderoni, assessore provinciale alla Protezione civile di Ferrara. Dal secondo giorno dopo il sisma i tecnici stanno già effettuando le verifiche alla stabilità degli edifici. «Sul territorio abbiamo quasi 500 volontari. Siamo stati in grado di rispondere all’emergenza con la sola Protezione civile provinciale», racconta l’assessore. Niente colonne mobili, campi tendati sorvegliati dai militari, generali dell’esercito. Dimenticate L’Aquila, il dipartimento di Comando e controllo, il filo spinato, i posti di blocco. Certo, la gravità del terremoto emiliano è imparagonabile a quello abruzzese di tre anni fa. Gli sfollati erano 67mila (contro 4mila assistiti in Emilia), i morti 309 (contro 7). Anche se in Emilia c’è molta preoccupazione per i danni economici. Per un aspetto, però, le due catastrofi, pur di diverse dimensioni e intensità, sono simili. Nel rischio che il governo faccia ulteriori danni dopo il sisma. Il dopoterremoto de L’Aquila fu quello della centralizzazione, delle leggi sospese, degli sciacalli, dei fiumi di denaro spesi per appalti inutili (ricordate le new town?) e della ricostruzione vera rimandatasine die (nella città delle 99 cannelle la attendono ancora). Quello emiliano potrebbe essere il dopoterremoto dell’ognuno per sé. Lo Stato pilatesco che si lava le mani. Perché il suo compito di mettere in sicurezza i conti pubblici è prioritario a qualsiasi legge morale di solidarietà nazionale.
I dubbi sulla ricostruzione
«Se il decreto rimarrà questo, i cittadini dovranno pagare da sè la ricostruzione», si allarma Oriano Giovannelli, deputato del Pd. «In nessuna nazione del mondo funziona così», aggiunge Roberto Reggi, delegato Anci della Protezione civile. «Se lo Stato non mi aiuta a ricostruire dopo una catastrofe, allora io voglio tenere sul territorio Imu e Irpef». «Il decreto va contro il principio di solidarietà, stabilito dall’articolo 2 della Costituzione», rincara la dose Enzo Boschi, uno dei massimi esperti di terremoto in Italia. Cosa ha fatto il governo, per fare andare su tutte le furie mezza Italia? L’esecutivo, nello sfortunato decreto del 15 maggio, ha infatti previsto una serie di misure che limitano l’impegno dello Stato nella gestione di terremoti e catastrofi. A una situazione in cui l’emergenza poteva essere prorogata all’infinito si sostituisce un “taglio tecnico”: cento giorni di stato d’emergenza e basta, qualunque sia la calamità, qualunque siano i provvedimenti presi. «Non ci convince nel modo più assoluto che l’emergenza una volta dichiarata sia circoscritta ad appena tre mesi, un’inezia rispetto ai problemi creati dalle calamità naturali», aggiunge Giovannelli, responsabile Pubblica amministrazione del Pd. «Certo, è vero, dei poteri emergenziali in passato si è abusato. Ma non si può esagerare nel senso contrario. Anche se la Protezione civile smettesse di seguire direttamente gli eventi calamitosi dopo i cento giorni, i poteri emergenziali vanno garantiti in capo al sindaco o al presidente della Regione». Passati i cento giorni la gestione dell’emergenza sarà assegnata, in via ordinaria agli enti locali. Con le risorse proprie, lascia intendere il decreto. Per finanziare le spese legate a emergenza e ricostruzione – afferma l’articolato del governo – la stessa Regione che ha subito la catastrofe può elevare le accise sulla benzina «fino a un massimo di 5 centesimi per litro». Come dire: se volete la ricostruzione, pagatevela di tasca vostra. Nei primi cento giorni lo Stato interverrà utilizzando il fondo della Protezione civile. Esaurito il quale ogni costo sarà automaticamente pagata da tutti i cittadini italiani, con una riduzione della spesa pubblica o un ulteriore aumento della benzina. Insomma, il messaggio è chiaro: lo Stato, di soldi per gestire le emergenze, non ne ha più. Eppure nello stesso decreto che riforma la Protezione civile il governo trasferisce sul conto in banca di Impregilo la bellezza di 355 milioni di euro per acquistare il controllo di uno dei peggiori impianti industriali del Paese, l’inceneritore di rifiuti di Acerra (Napoli), noto per i suoi continui sforamenti ai limiti delle emissioni.
Rca Casa
Ma il vero colpo basso del governo, quello che ha fatto andare su tutte le furie gli sfollati emiliani, è un altro. Si trova nell’articolo 2 del decreto. Dove si legge che sarà possibile «estendere ai rischi derivanti da calamità naturali le polizze assicurative contro qualsiasi tipo di danno a fabbricati di proprietà di privati». Non è un obbligo, dunque, quello di assicurarsi: è una possibilità, lasciata all’iniziativa volontaria. Però poi nel secondo comma si introduce la necessità di stendere un regolamento per queste polizze assicurative. E fra i criteri, il decreto inserisce anche l’«esclusione, anche parziale, dell’intervento statale per i danni subiti da fabbricati». In parole povere: se vuoi la certezza che, dopo un terremoto, la tua casa sarà ricostruita, affidati a una società privata, perché lo Stato non ci metterà un euro. Altrimenti tieniti le tue macerie. L’idea non è nuova. A introdurre un provvedimento del genere ci aveva provato anche il governo Berlusconi, alla fine del 2009, in un decreto noto per l’intenzione di costituire una Spa della Protezione civile. Il provvedimento era poi naufragato, sull’onda degli scandali della “cricca”. Ora ci riprovano i tecnici. «Si tratta di un’operazione destinata a finire in un buco nell’acqua. Realizzare un’assicurazione sulle catastrofi è possibile solo collegandola a interventi sulla riduzione del rischio», spiega Roberto De Marco, ex direttore del servizio sismico nazionale, tra i massimi esperti di terremoti. De Marco è autore di uno studio per la rivista Ingegneria sismica del Politecnico di Milano, che pone numerosi dubbi sul provvedimento del governo. «Nel 25 per cento del Paese non a rischio sismico, il premio sarebbe più basso che al Sud, dove si registrano più terremoti. Si potrebbe allora far pagare a tutti la stessa cifra, ma sarebbe vissuta come una nuova tassa sulla casa. E chi garantirà, poi, che dopo un sisma cittadini e assicurazioni non finiscano in causa? E quanto vale un palazzo seicentesco danneggiato dal crollo? E se qualcuno non volesse sottoscrivere l’assicurazione, lo Stato lo lascerà per sempre dentro una tenda?». L’unica soluzione, secondo Di Marco, è un intervento pubblico per prevenire il rischio, mettendo in sicurezza gli edifici. Solo allora si può pensare a introdurre un’assicurazione sulla casa. Anche il sismologo Enzo Boschi è dello stesso parere: «Il problema principale è la prevenzione: far sì che gli edifici non crollino, e questo è possibile tecnicamente. Invece di grandi lavori pubblici come la Tav, si facciano tante piccole opere, a partire proprio dai Beni culturali».
La tassa sui terremotati
E per quanto riguarda l’Emilia? Cosa accadrà? Considerati i tempi di conversione del decreto in legge e i tempi stabiliti per la scrittura del regolamento è lecito aspettarsi che la questione non riguardi affatto questo terremoto: quale governo avrebbe il coraggio di imporre misure così impopolari, così a ridosso di un evento sismico? «Ci aspettiamo», spiega ancora l’assessore ferrarese Calderoni, «che vengano date garanzie sui risarcimenti: i cittadini sono preoccupati. Se quello delle assicurazioni deve essere il modello, può valere solo per il futuro: noi non abbiamo edifici assicurati, in questa fase. Sarebbe un costo insostenibile, e non è certo mettendo nuove accise e nuove imposte che si risolve il problema. Ci aspettiamo, anzi, anche una sospensione delle tasse». La dichiarazione dello stato d’emergenza per i territori di Bologna, Modena, Ferrara e Mantova è avvenuta nel corso del Consiglio dei ministri del 22 maggio. E tutte le decisioni rese note sono coerenti con il decreto di riordino della Protezione civile: emergenza di 60 giorni, coordinamento affidato al capo della Protezione civile nazionale Franco Gabrielli (che potrà agire con massima libertà, senza «concerti o visti preventivi»), ordinanze emanate nei 20 giorni successivi alla dichiarazione d’emergenza e «immediatamente efficaci». Poi il peso dell’emergenza passerà alle Regioni. Non c’è invece alcuna chiarezza sulla questione dei risarcimenti né sulla sospensione dell’Imu per i cittadini colpiti dal terretemoto. Monti ha fatto sapere che si prevede di sospendere l’odiato balzello per gli edifici dichiarati inagibili, ma solo dopo che sarà stato completato il censimento: ce la si farà entro il 16 giugno (data di scadenza della prima rata)? E quando il coordinamento nazionale se ne andrà, come si organizzeranno il ripristino e la ricostruzione? E con quali fondi? I 50 milioni di euro stanziati dal governo, infatti, verranno utilizzati solamente per i «soccorsi, l’assistenza e la messa in sicurezza provvisoria degli edifici pericolanti».
Lo scontro coi sindaci
Nel decreto del 15 maggio si menziona anche la possibilità che la delega per la Protezione civile venga affidata al solo ministero dell’Interno (oppure al sottosegretario alla presidenza del Consiglio). Come se l’emergenza fosse una semplice questione di ordine pubblico. «La Protezione civile è una funzione trasversale, condivisa tra Stato, Regioni e Comuni: per questo serve un sistema che non può essere incardinato in una delle canne d’organo dell’organizzazione statuale», commenta Lorenzo Dallai, presidente del Comitato paritetico Stato- Regioni-Enti locali. Detto con le parole di Giuseppe Zamberletti, l’ex ministro Dc inventore della Protezione civile moderna: «Il coordinamento tra pari non è possibile». Per far lavorare tutti insieme serve il coordinamento della presidenza del Consiglio. Ultimo elemento di tensione: gli Enti locali, che si sono sentiti scavalcati dal governo nella definizione del decreto. «Ho provato a spiegarlo al sottosegretario Catricalà: la legge sulla Protezione civile non ha nulla a che fare con lo spreed. Ho l’impressione che nel governo nessuno sappia cosa vuol dire amministrare un territorio», protesta Roberto Reggi. «C’era un impegno a rivedere la legge insieme. Ci hanno preso in giro, scegliendo la strada della decretazione di urgenza. Faremo ricorso in Corte costituzionale», continua il delegato dell’Anci. «Questi tecnici non hanno alcun rispetto delle istituzioni».
diMANUELE BONACCORSI E ALBERTO PULIAFITO, left.it