di Lionello Mancini, IlSole24Ore – Torniamo sullo scarso successo che le white list sembra riscuotere tra le piccole e medie imprese della filiera delle costruzioni (Il Sole 24 Ore del 23 luglio).
Pensate per offrire un vantaggio competitivo alle ditte che accettano di farsi radiografare preventivamente dalle prefetture, così da far escludere ogni implicazione con la criminalità organizzata, con sette iscrizioni tra Milano (6) e L’Aquila (1) – le sole province interessate dal Dpcm 18 ottobre 2011 -, le white list sono ancora praticamente deserte. Cerchiamo di indicare i principali motivi per cui, secondo gli osservatori, ancora oggi non sono attrattive.
La legge sulle white list risente di un vizio originario: i costruttori vorrebbero delegare ad altri organismi la responsabilità della scelta dei fornitori. Ecco, allora, che un elenco di imprese della filiera “garantite” dai controlli di Stato rischia di trasformarsi in una delega totale e deresponsabilizzante. Ma così non può essere, perché chiunque entri per lavorare in un cantiere deve rispettare, oltre che le norme generali di buona condotta e di legalità, anche le regole che l’appaltatore ha sottoscritto e di cui porta la responsabilità.
Questo sulla base dei numerosi e dettagliati protocolli che formano ormai una rete normativa materiale che impegnano l’organizzazione, le risorse e la responsabilità sociale delle grandi imprese capocommessa.
Ambienti investigativi hanno anche sollevato l’obiezione secondo cui la legge istitutiva delle white list sconta la sua focalizzazione esclusiva sul fronte antimafia. Questa impostazione rischia perciò di aprire le porte all’elenco delle imprese virtuose anche a realtà i cui amministratori siano incorsi in reati o abbiano persino subìto condanne, ma in vicende non direttamente riconducibili alla criminalità organizzata. Nelle scorse settimane il tavolo interforze di Milano ha perciò posto il problema alla Sezione specializzata del Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza delle grandi opere istituita presso la prefettura, chiedendo un’interpretazione autentica della legge al fine di evitare discutibili ammissioni alle white list.
Quanto a mezzi e tempi di verifica, il disallineamento negli strumenti e nell’organizzazione esistente tra prefetture, uffici giudiziari, forze di polizia nelle diverse aree del Paese finisce con il vanificare la scelta del Dpcm che indica Milano (Expo) e L’Aquila (post-sisma) come Utg decisori sull’ingresso nelle white list. Scelta giusta, ma quando Milano riceve la richiesta di iscrizione da una ditta ennese, le verifiche vanno fatte dalla prefettura locale e se lì mancano i computer o scarseggia il personale, ecco che i tempi di Milano diventano i tempi di Enna. Insomma, si sconta in ogni caso lo stato generale in cui versa la pubblica amministrazione, mentre mercato e appalti hanno esigenze di tempi completamente diverse.
In questo quadro, che verrebbe migliorato dall’impegno proattivo e autonomo delle singole imprese e associazioni di categoria, la normativa sul rating antimafia prevista da una legge in vigore dal 21 maggio, ancora vagola tra gli uffici dell’Antitrust e quelli della Banca d’Italia, in attesa – dicono i primi – del parere di quest’ultima.