di Diego Vitali – La viralità del web è un concetto che mi ha sempre affascinato. Dalla “Teoria dei sei gradi di separazione” alla condivisione immediata ed intuitiva dei contenuti sui Social il passo è stato breve.
Insieme alle notizie del giorno, alle frasi che fanno sorridere, agli hashtag più improbabili, alle tendenze del momento, circolano anche parecchie “bufale”. E quelle, si sa, si diffondono sul web con una velocità estrema, con la complicità dei maggiori Social Network.
E quando si parla di temi caldi, che arrivano alla pancia della gente, come l’inquinamento ambientale… sembra che la fantasia di giornalisti e opinionisti 2.0 non conosca limiti.
In questo caso è stato uno dei principali quotidiani italiani a riportare una notizia senza averne controllato bene la fonte. Un articolo del 2 febbraio scorso riportava la notizia della corsa al petrolio che la Croazia sta portando avanti nell’Adriatico Orientale. Il Governo di Zagabria ha incaricato una nave norvegese, la Northern Explorer, di eseguire ricerche sul fondale marino per identificare i giacimenti di idrocarburi.
La mappatura avviene tramite la tecnica della registrazione sottomarina tridimensionale: vengono emesse delle potenti onde sonore che colpiscono il fondale e, captando la eco, si riesce ad avere un’idea della sua struttura geologica. La tecnica è conosciuta anche come air gun e ha sempre sollecitato le proteste degli ambientalisti, secondo i quali questa produce gravi danni all’ecosistema marino, in particolare ai cetacei. Lo stesso articolo si lancia in un quadro apocalittico del Mar Adriatico: “(…) i capodogli, scappati oltre lo Jonio; i delfini, sette spiaggiati in un mese fra Jesolo e l’Abruzzo; la fauna rara d’un mare già mezzo morto, le tartarughe marine e le stenelle, i tursiopi e le balenottere, i grampi e le foche monache. «Tutti spariti – protestano i biologi marini del Blue World Institute di Lussino -, terrorizzati e talvolta uccisi da un inquinamento acustico che li fa impazzire»”.
Sette delfini spiaggiati in un mese e nessun organo d’informazione si è occupato della notizia? La cosa mi ha insospettito e così ho pensato di vederci chiaro. Ho deciso di cominciare dal WWF Abruzzo, immaginando che gli enti che tutelano l’ambiente di un territorio siano sempre informati su eventi del genere. Con mio grande stupore però, i ragazzi del WWF Abruzzo non erano a conoscenza della notizia. Secondo WWF Abruzzo, negli ultimi mesi non c’erano stati spiaggiamenti nella Regione. Così, mi hanno consigliato di sentire la loro controparte delle Marche, i quali, magari, potevano avere maggiori informazioni.
Peccato che neanche il WWF Marche sapesse nulla di questa storia. Il mistero stava diventando sempre più fitto. Com’è possibile, mi sono chiesto, che di questi sette delfini non sia rimasta traccia? Secondo una biologa marina del WWF, nel caso di un eventuale singolo episodio nelle Marche, la notizia sarebbe potuta anche sfuggire all’associazione ambientalista. L’articolo, infatti, parlava di spiaggiamenti “da Jesolo all’Abruzzo”, lungo un tratto di costa molto ampio che interessa diverse Regioni italiane. Ma sette cetacei morti in un solo mese è comunque un numero significativo. Possibile che le ricerche di idrocarburi con le onde sonore ne siano state responsabili?
Secondo la biologa marina ciò sarebbe anche possibile, ma tutto da dimostrare: bisognerebbe, infatti, prima reperire le carcasse degli sfortunati animali e poi analizzarle per scoprire l’effettiva causa della morte, considerato che gli ipotetici delfini morti avrebbero potuto aver ingerito un sacchetto di plastica, o altro ancora.
A questo punto la biologa mi ha indirizzato presso altri enti che sicuramente ne avrebbero saputo di più. Ho così contattato la Fondazione Cetacea di Rimini, una onlus impegnata nello studio e nella tutela di delfini e tartarughe e del loro ecosistema.
Qui le cose hanno cominciato ad apparirmi decisamente più chiare: neanche la Fondazione era a conoscenza di sette delfini morti di recente. Secondo loro gli ultimi casi registrati di spiaggiamento risalivano a ottobre 2013. Controllando la banca dati nazionale degli spiaggiamenti del Cibra – Centro Interdisciplinare di Bioacustica e Ricerche Ambientali dell’Università di Pavia, sono effettivamente emersi una serie di episodi, concentrati tra Abruzzo, Marche ed Emilia Romagna.
Gli esemplari in questione, però, non sono deceduti a causa del petrolio. Secondo quanto emerso dalle necroscopie eseguite su alcuni dei cadaveri dai biologi della Fondazione Cetacea, la causa della morte dei delfini è stata: morbillivirus, un virus purtroppo molto diffuso nel Mediterraneo, che ha causato una vera e propria epidemia anche nell’Adriatico.
Dunque, il colpevole della morte dei poveri cetacei non è la nave Northern Explorer, ma l’epidemia di morbillivirus!
La Fondazione ha tenuto inoltre a precisare che dimostrare scientificamente un collegamento tra la morte dei cetacei e le onde sonore utilizzate nella ricerca di idrocarburi è estremamente difficile. Come si fa, infatti, a essere certi di poter escludere altre eventuali cause? Bisognerebbe trovare esemplari in ottimo stato di salute, morti esclusivamente o prevalentemente per le onde sonore. Cosa vicino all’impossibile.
In un momento particolare come quello che sta vivendo la società abruzzese, sempre più spaccata tra i guelfi del petrolio e i ghibellini dell’ambiente, con un tasso di disoccupazione che incombe e una ripresa economica che stenta a decollare, credo che alcuni temi “tecnici” – come il delicato rapporto tra le tecniche di estrazione e il rispetto del territorio – debbano essere trattati da esperti in materia, in modo da avviare un dibattito serio ed efficace, utile a capire se e in che modo l’industria petrolifera può convivere proficuamente con le bellezze della nostra terra.
Ma quando inizieremo a capire la sostanziale differenza che separa una protesta insensata da una proposta costruttiva? C’è il rischio che l’opinione pubblica si smarrisca tra falsi allarmismi e slogan da campagna elettorale.