di David Zallocco – Da una parte i mercenari di Braccio da Montone, che già da un anno assediano la città appenninica (fedele agli Angiò), assoldati per difendere gli interessi degli Aragonesi nella lotta per il trono di Napoli; dall’altra le truppe del giovane Francesco Sforza, ingaggiato dagli Angioini. Suona il corno, le truppe cominciano a muoversi.
L’erba è appena tagliata, le suole di cuoio sono poco aderenti e rendono più difficili i movimenti. I due schieramenti si avvicinano, lentamente; sul primo rango sono schierate le picche, sul secondo gli uomini con spada e scudo; nelle retrovie stazionano gli arcieri, pronti a colpire da lontano. Le armi si abbassano, i capitani e i “serragente” urlano per contenere l’irruenza degli uomini, i ranghi non sono più perfettamente allineati. Ci siamo, le picche cominciano ad incrociarsi: ferro e legno, suoni metallici e suoni più sordi, grida di rabbia, adrenalina che sale. Nessun morto, ci si stacca e si riprende fiato. Il primo rango si allarga, passano avanti gli scudi e le spade. I battaglioni si riavvicinano, gli scudi impattano, le spade si incrociano; le picche dietro provano ad infilzare qualcuno dall’alto. Ancora nessun morto, i nervi si fanno più tesi. Suona il corno, è il segnale per gli arcieri. Tutti giù: gli uomini del primo rango si accosciano a terra, alzando gli scudi per proteggersi; quelli del secondo rango avanzano le armi per intercettare le frecce, tenendosi rannicchiati. Piovono dardi, fortunatamente colpiscono solamente gli scudi. Passate le frecce, gli uomini si rialzano, pronti per la fase finale. I ranghi si ricompongono, questa volta l’avanzata è più veloce, ha l’aria di una carica. Comincia a morire qualcuno, i bracceschi sembrano sopraffare gli sforzeschi. All’improvviso però un’orda, scomposta e furiosa, scende lungo i pendii del prato e colpisce alle spalle gli uomini di Braccio: sono gli aquilani, guidati dal nobile cittadino Antonuccio Camponeschi, che non intendono vivere un giorno di più sotto l’assedio del Conte di Montone. La situazione precipita: i mercenari di Braccio sono stretti in una morsa, la loro sconfitta è inevitabile. Lo stesso condottiero perugino morirà due giorni dopo, a causa delle ferite riportate durante la battaglia.
L’Aquila è salva e libera, grazie agli stessi aquilani.
Così è stata rievocata, sabato scorso, la “Battaglia di Bazzano”, combattuta realmente il 2 giugno 1424. Il sottoscritto, facente parte della Compagnia dei Morlacchi, ha partecipato a questa rievocazione. Naturalmente la riproduzione è stata “in scala”: non ci sono stati due eserciti, ma due schieramenti, di venti persone circa (rievocatori provenienti da tutto il centro Italia), che hanno interpretato a dovere il loro ruolo; niente morti, ma lievi tocchi con la punta delle armi, segnale che “tu devi cadere”; niente punte per le frecce, solo tappi di gomma. Vere però sono state le urla, veri sono stati gli ordini e le manovre, vera è stata la foga dello scontro. Vero è stato il bollente sole di mezzogiorno, sotto cui si sono arroventati i nostri elmi.
C’è un’altra cosa però, dietro la coreografia militare e l’accampamento medievale, dietro il palio fra i Quarti aquilani e il torneo fra le compagnie intervenute alla manifestazione, che la compagnia Rosso d’Aquila, organizzatrice dell’evento, ha cercato in tutti i modi di tirare fuori: l’orgoglio aquilano. Sì, perché L’Aquila, secondo gli organizzatori, rischia di dimenticare sé stessa, soprattutto dopo un evento tragico come il terremoto del 6 aprile 2009, che ha dissanguato il magnifico centro storico cittadino, che sembra tenersi in piedi solo grazie ai puntelli e alle strutture in acciaio. L’Aquila che ho visto in questi due giorni è una città che ha ancora addosso le stimmate del sisma, ma che sta cercando allo stesso tempo di rialzarsi, di tornare ad essere forte, di ridarsi fiducia. Sono gli aquilani stessi i protagonisti di questo ribollio, i primi a dirsi l’un l’altro “Jemo ‘nnanzi”, come recitava lo striscione appeso in piazza Duomo sabato. Come seicento anni fa: le vittime, stanche, escono dalle mura cittadine, ognuna con la propria arma, e scacciano il nemico che le assediava.
La Federazione Gruppi Storici L’Aquila una sua arma ce l’ha, e l’ha usata: la storia, il Medioevo, le radici. L’Aquila non è mai stata una cittadina qualsiasi: è sempre stata un città florida, strategica; è sempre stata la “chiave del Regno” (di Napoli), perché per arrivare a Napoli da Firenze bisognava obbligatoriamente attraversare il territorio aquilano (dall’altra parte c’erano le paludi pontine); è sempre stata una città cosmopolita, come testimoniano le vie dedicate agli “Alamanni”, agli “Albanesi” e a molti altri gruppi etnici.
A questo è servita la rievocazione: non a dare spettacolo, ma a ricordare agli Aquilani cosa sono capaci di fare, soprattutto nelle condizioni più dure. Riscoprire il passato, per ritrovare il futuro.
In tutto ciò però c’è una nota malinconica: l’indifferenza di alcuni settori della società. Il primo settore, quello che si nota di più, è il pubblico: vuoi perché in quei territori la passione per la rievocazione non è particolarmente diffusa (dalle nostre parti un evento del genere avrebbe riempito le piazze), vuoi per una questione di organizzazione, la comunità non ha partecipato in massa; anche se, chi ha assistito è rimasto a bocca aperta.
Il secondo settore “latitante”, seppur esplicitamente invitato, è quello istituzionale: né sindaco (che aveva promesso di intervenire o, al limite, di delegare al vice), né vicesindaco, né assessori vari si sono degnati di salire sul palco, allestito in piazza Duomo (mica in un crocicchio di periferia), per fare un saluto, per dare una parola di incoraggiamento, per far vedere che loro ci sono, almeno nelle occasioni ufficiali. Niente, nessuno.
Eppure i ragazzini con le t-shirt “6 aprile 2009 – Jemo ‘nnanzi” in piazza c’erano: lor signori dove stavano?