di Giancarlo De Amicis – Il paesaggio che oggi si apre allo sguardo del cittadino aquilano attraverso la finestra elettorale, appare più che mai sfumato e frantumato e rimette in discussione la vacillante comprensione di cittadinanza. I processi di de-territorializzazione imposti dal sisma, hanno portato alla luce un aspetto che metaforicamente possiamo definire di finestrizzazione del reale: un’esperienza che fa intuire che la nuova visione di città non può nascere, se non all’interno di una strategia di rinnovamento che viene a interessare innanzi tutto le regole della governance, regole che, dalle manifestazioni con cui si va svolgendo il tour elettorale, non sono improntate né ad una visione sistemica, né partecipata.
Contrastare la realtà esistente mettendo in mostra gli errori compiuti da altri, costituisce l’argomento ad hominem di chi è a corto di idee, per rafforzare la propria candidatura. Data la complessità del processo di rigenerazione della città, forse sarebbe meglio unire tutte le energie ed inaugurare una nuova stagione politica, trasformando così il tour elettorale in un brainstorming, una tempesta di idee proveniente dalle diverse coalizioni, che concorrono insieme a plasmare una nuova vision condivisa della città, espressione-collage di una intellighenzia multipla. L’immagine di l’Aquila oggi, una immensa periferia che si alterna ad un arcipelago di isole di servizi, si rispecchia nella sua compagine sociale, costretta ad affidare la ricostruzione della città ad un modello fondato sulla competizione e su una visione gerarchica, che neanche l’evento sismico è riuscito ad incrinare. Il senso della civitas infatti è ancora ostaggio di una politica che procede per competizioni, all’interno di steccati partitici o di clan e incapace di aprirsi a risoluzioni corali. “La guerra santa, l’ultima che si farà” è l’obiettivo che perennemente stimola un inconscio narcisismo dei candidati. L’Aquila oggi si configura come un sistema territoriale eterogeneo in cui le variabili in gioco sono molteplici. L’applicazione di un metodo di governance ancora ostaggio di una democrazia non partecipata, non consente di effettuare un controllo generale dei processi di sviluppo, né di determinare processi compensativi. Una strategia ispirata al brainstorming, orientata a produrre una piattaforma comune, riferita a paradigmi di sperimentazione derivanti dai nuovi tempi di vita e misuratori della qualità delle trasformazioni socio-economiche e ambientali, rappresenterebbe uno spiraglio rassicurante per la società civile.
Una specie di master-plan della governance. Sottrarsi alle forme di cedimento della democrazia, vuol dire elaborare contributi di riconversione di pensiero e di immaginazione politica, capaci di promuovere fenomeni di connessione e di ibridazione.
Le nuove cittadinanze a l’Aquila possono essere assunte come un concetto che offre molteplici opportunità di confronto e di mediazione con l’altro, quindi facilita la messa in opera di connessioni che servono a modificare l’esistente dell’ante-terremoto, anche in riferimento alle minoranze politiche che, prevalentemente, come spettatrici, sono comunque parte del quadro. Un’autentica aspirazione ad una democrazia partecipata potrebbe configurarsi come forma di comunicazione di pratiche diversificate, precedentemente maturate all’interno di ciascuna coalizione, valorizzando quindi quella circolarità dell’esperienza umana che consente di fondare una cittadinanza plurisoggettiva. Destinata ad escogitare un apparato di regole universali che possano filtrare le differenze senza opprimerle nell’unicità, tale aspirazione favorisce il gioco e lo scambio per la modificazione reciproca.
Concettualmente l’idea moderna di cittadinanza include tutti i membri della collettività, senza distinzione di sesso, di condizioni sociali, di orientamenti politici e quant’altro. Vi sono regole nella vita sociale che riguardano tutti, quindi la partecipazione alla elaborazione di quelle regole, è fondamentale garanzia di libertà. Partecipare alla creazione e alla gestione delle regole, delle procedure, delle “vision” che presiedono al vivere associato – produrre autonomia, sottrarsi all’eteronomia della regola prodotta dall’altro sulla sua misura, considerata come unica – consente di riconoscere in esse una propria riflessione, quindi di darvi un’adesione almeno parziale. A fronte di una politica relazionale fondata sulla valorizzazione delle soggettività, sulla ibridazione culturale e sul sincretismo, oggi subiamo ancora gli effetti di una impostazione gerarchica, in cui l’esercizio della democrazia è fondato sulla logica dei grandi numeri, una logica che produce disparità nel diritto di cittadinanza e alimenta situazioni di monopolio del discorso, dell’economia, della politica. Una visione che ha dato vita alla città radio-centrica, con la cittadella del potere al centro e i gironi sempre più larghi e più lontani e più emarginati. Tuttavia, le politiche complesse, legate ad una città che deve ricostruire la sua identità, possono essere governate solo attraverso una continua negoziazione fra le diverse parti interessate. Una forma ibrida di organizzazione collettiva della vita pubblica, che va ben oltre i confini imposti dalle maggioranze, è rappresentata dalla “struttura reticolare”.
Le reti, le interdipendenze, i modi non gerarchici di governance e di risoluzione delle dispute all’interno delle amministrazioni comunali, diventano sempre più gli obiettivi del futuro. Il passaggio da un modello gerarchico ad uno a rete conferisce alla comunicazione il ruolo di protagonista, poiché viene ad innescare una forma di governance aperta, flessibile, dinamica, integrata col territorio e vicina al cittadino. Ma la politica aquilana è in grado di prendere decisioni corali che, varcando gli steccati delle coalizioni, siano sensibili alla riscoperta dell’arte della condivisione? Nel frantumato contesto sociale e ambientale in cui ci troviamo, cercare la condivisione e la coralità delle scelte non è una opzione, è una necessità. Patchwork, culti sincretici, world music: la progressiva diffusione di questi termini aiuta a comprendere meglio il radicale mutamento in atto fondato sul sincretismo.
Un processo che nel territorio sabino-forconese non si fece attendere già in età medievale, allorquando, accantonando le visioni localistiche, i castelli fondatori si orientarono verso un nuovo modello amministrativo, fondato sulla politica sincretica della città-territorio. Crollarono le barriere, i castelli si unirono a costituire il Comitatus Aquilanus. Gli individui circolarono liberamente e si mescolarono fra loro in una combinazione di idee, di usi e costumi differenti. Questo pensiero meticcio, oggi così profondamente osteggiato dai ricatti di una democrazia imperfetta, va risvegliato. Lo stato di calamità ed il rischio del disfacimento identitario sono tali da richiedere un nuovo modello di governance, sorretta dal concorso armonico di tutte le energie presenti in città, nessuna esclusa, sostituendo alle variopinte bandiere delle coalizioni, l’unica bandiera nero-verde. L’ordine attuale che divide la nostra città in clan, in privilegiati ed esclusi, va scompaginato.
E’ tempo di inaugurare un modello alternativo di governance che porti alla luce soggetti politici complessi, capaci di creare e mettere all’opera le differenze, di traghettare pensieri dissimili, attraverso metodi che favoriscano l’azione di uno sguardo molteplice sull’esistente, per uno sviluppo aperto e autocritico della società aquilana.