L’Aquila non ha bisogno di un disegno demiurgico ma di un disegno virtuoso. Nel 1909 la Torre Eiffel rischiò di essere demolita perché contestata dall’élite artistica e letteraria della città; fu risparmiata solamente perché si rivelò una piattaforma ideale per le antenne di trasmissione necessarie alla nuova scienza della radiotelegrafia. Riuscite ad immaginare Parigi senza quello che i suoi “illuminati” concittadini all’inizio del secolo non temevano di chiamare “l’asparago di ferro”?
Il museo Guggenheim di Bilbao, soprattutto durante la sua costruzione, ricevette numerose critiche da differenti settori della cultura basca. Jorge Oteiza, scrittore, architetto, e poeta spagnolo giurò che nessuna opera sarebbe mai stata esposta in quella struttura che definì una “Fabbrica di formaggi”. Secondi i dati ufficiali, il Guggenheim è diventata la maggiore attrazione turistica della pur bellissima e un tempo ricchissima città basca.
Cito questi esempi per dimostrare che anche l’ottusità non ha cittadinanza. Anche negli aspetti più retrogradi e conservativi, gli aquilani hanno dei temibili concorrenti.
Mi dispiace apprendere che lo storico – filosofo Walter Cavalieri si sia iscritto nella lunga lista dei sofisti che da anni regnano in città, con i nefasti effetti di cui ogni buon aquilano è continuamente complice e vittima nello stesso tempo. Nella sua legittima disamina della situazione post sisma, Cavalieri dimentica che la città era già stata distrutta da una sciagurata amministrazione bipartisan, schiava di vecchie logiche e di logori poteri che avevano impedito il giusto rinnovamento di forze ed idee.
Un rinnovamento indispensabile, a qualsiasi latitudine del globo, per garantire una società viva e pulsante. Panta rei, ci ricordano a scuola. Immota manet, invece, rimane l’impossibile sfida con la quale amministratori, amici, conoscenti e gregari aquilani hanno preteso di governare e spartirsi gli interessi della città per troppi, lunghissimi anni. Il prezzo di questa scelta contro natura è stato altissimo. Non solo una parte dei cittadini, quella de “L’Aquila bella me’!”, ha trasformato le proprie insicurezze in “orgoglio”- cosa tipica di ogni decadente realtà sociale vittima della propria autoreferenzialità- ma tanti altri, quelli forse con visioni più innovative e virtuose, sono dovuti fuggire altrove.
L’Aquila, nella sua immobile realtà, ha ucciso o fatto migrare tutte le sue energie più positive per continuare a riproporsi sempre con lo stesso volto, con gli stessi uomini, con le stesse idee. Non serve ricordare le polemiche su San Bernardino o il nuovo Auditorium per capire quanto chi ci amministra continui ad essere refrattario e codardo di fronte ad ogni ambizioso progetto di rinnovamento.
L’Aquila non ha bisogno di un disegno demiurgico ossia un disegno fatto da gente abituata ad avere uno stipendio sicuro a fine mese e a dire sempre cosa “non si doveva fare” ma mai cosa si sarebbe dovuto fare. Il 70% delle famiglie aquilane ha almeno un membro che risulta essere un “dipendente pubblico”, persone che mai hanno pagato per le loro scelte, giuste o sbagliate. Questa è stata la vera dannazione della città: una classe dirigente dopata dal denaro pubblico e abituata a coltivare sofismi legati agli interessi e ai rapporti interpersonali.
Quelle che sembrano schizofrenie o semplici stupidità sono, in realtà, azioni sempre legate ad un misero interesse tenuto ben nascosto. L’Aquila ha bisogno di riscoprire le sue energie giovani. Energie capaci di coltivare un disegno virtuoso nell’interesse di un prospero futuro comune e con il coraggio di confrontarsi apertamente ed intelligentemente con tutti gli interessi che convivono normalmente in una società. E’ difficilissimo ma, come ci dimostrano tante altre realtà virtuose, possibile. Basta rinchiudere ed isolare le forze più stanche e logore nei loro aridi orticelli.
Troppo cinico? Forse. Ma mai quanto il cinismo di chi si ostina a rifiutare l’idea di aver fatto il proprio tempo e di mettersi da parte. (SF)