di Stefano Torelli – Chiara Mazzone parlava l’altro giorno dei progetti per L’Aquila. E chiedeva come possa diventare una smart city. Mi ero ripromesso, e avevo promesso, di dire la mia in merito.
L’Aquila Smart City. Mai nessun annuncio è stato più auspicabile e, allo stesso tempo, privo di senso se traslato nella realtà della maggior parte di coloro che se ne sono appropriati e stanno usando tale termine in questi ultimi giorni. L’ultima frontiera delle vaghe speranze vendute per assolute certezze è quella di una città smart, veniamo dunque a scoprire. Cosa vuol dire con esattezza? Tutto e niente. Per la precisione, tutto quello che gli aquilani vogliono sentirsi dire, soprattutto in un momento di campagna elettorale e, d’altro canto, niente di ciò che veramente potrà essere fatto nel breve termine e, soprattutto, di ciò che molti di coloro che si sono impossessati di questo slogan hanno realmente intenzione di fare. Sono i fatti a dirlo.
Una settimana dopo il terremoto, il 13 aprile 2009, un gruppo di cittadini si riuniva in un parco di una L’Aquila martoriata e militarizzata, in mezzo a rumori di elicotteri della polizia e della Protezione Civile, camionette militari che andavano e venivano, divieti di camminare e a volte di riunirsi, tendopoli in tutti i punti aperti della città, paura, smarrimento e rabbia. Quei cittadini, tra cui chi scrive, erano tanti. Erano giovani e non. Erano uomini e donne, ragazze e ragazzi. La domanda era una sola: che facciamo? La risposta, declinata in vari modi, era una sola: partecipiamo. Prima ancora di dire “ricostruiamo”, “torniamo a volare”, si diceva: “partecipiamo”. Anzi, di più: si diceva “ci mettiamo a disposizione delle autorità e con loro ripartiamo”. Questa era la scelta di metodo che si intendeva portare avanti, perché si era capito che solo in questo modo sarebbe stata possibile una nuova politica, nel senso di un nuovo modo di compiere le scelte necessarie per ripartire. Senza pregiudizi, senza nessun preconcetto rispetto al governo locale o nazionale, l’unica volontà era quella di prendere decisioni subito. Decisioni ragionate, lungimiranti e, come già detto, partecipate. L’idea di fondo era, passando dal metodo di azione al sogno da realizzare, quella di una città nuova. Non (o non solo) negli edifici, ma nella mentalità. Il paragone che io stesso feci, me lo ricordo ancora, fu quello di Berlino nel post-Guerra Fredda (deformazione professionale, dal momento che mi occupo di politica internazionale): un cantiere di innovazione e di sperimentazione, con il contributo di tutti gli attori esterni necessari, ma con l’indispensabile partecipazione dei cittadini, sia a livello organizzativo, che materiale. Un sogno, appunto. Ma un sogno che nasceva dalla costatazione che, se mai vi fosse stato un modo per rendere quell’immane tragedia “costruttiva”, era proprio quello di sfruttare il vuoto creato per riempirlo di innovazione. Del resto, le sperimentazioni nascono o dal nulla, o dal bisogno di rifondare. Questo era il caso dell’Aquila. Già si pensava ad ambiente, reti wireless, crescita ed economia sostenibile, politica partecipata, ricostruzione intelligente… in una parola: si pensava smart.
Nel frattempo, il governo stava inviando lo sceriffo plenipotenziario Guido Bertolaso ad amministrare indisturbato la città, a organizzare un G-8, a costruire ex novo migliaia di piccoli loculi e casermette che sarebbero passate alla storia come “new town” e come il miracolo aquilano. E, nel frattempo, l’amministrazione comunale dell’Aquila assisteva impotente a questa politica calata dall’alto, senza preoccuparsi delle conseguenze e, in maniera piuttosto sbalordita (e, per chi come me osservava dal di fuori, sbalorditiva), il sedicente sindaco Cialente sarebbe arrivato, qualche mese dopo, a elogiare in pompa magna l’amico Bertolaso, fino a esprimergli la sua solidarietà nel momento in cui quest’ultimo è stato indagato dalla magistratura, non dopo aver applaudito al suo operato, sfoggiando un gran sorriso, in occasione di un premio a lui conferito. Applaudendo, in pratica, all’infrangersi di quel sogno che i suoi concittadini stavano maturando, vale a dire quello di una politica nuova, partecipata, innovativa.
A distanza di tre anni, oggi, tutti i candidati sindaco, con diverse parole, parlano di smart city. Ora, quale dovrebbe essere la precondizione necessaria per l’attuazione dell’ambizioso programma (per altro spesso non specificato) di smart city? La parola smart vuol dire, letteralmente, intelligente. Intelligente nel senso di lungimirante, anche. Vale a dire il contrario di quanto fatto fino ad ora. L’Aquila è stata testimone di decine di ordinanze, mai o troppo tardi tramutate in un serio, organico e unico progetto legge di lungo termine. E’ stata il campione del concetto di “necessario ma provvisorio” – si guardi appunto alle 19 new town costruite nei suoi dintorni – che, improvvisamente, per miracolo, si è fatto (o si farà) “definitivo”. Politichette tappabuchi di brevissimo termine, le quali diventeranno probabilmente soluzioni definitive per assenza di risorse, volontà e alternative. Se siamo a questo punto, se l’incidenza dei suicidi, delle depressioni, del disagio (non solo giovanile: basta con questo mito. Anche i cinquantenni, i sessantenni, i settantenni e gli anziani stanno male) sociale è esponenzialmente aumentata, vuol dire che non si è agito in maniera del tutto smart.
Eppure, quando il gruppo di cittadini di cui sopra – gruppo che, con il tempo, è diventato sempre più eterogeneo, anche se purtroppo ancora sopraffatto numericamente da quella “maggioranza silenziosa” che è rimasta ad osservare, in balia del senso di smarrimento – proponeva e chiedeva una nuova metodologia di processo decisionale, è stato attaccato dal governo centrale. E non tutelato, anzi contrattaccato, da quello locale. Come si fa oggi a sentir parlare di partecipazione e di concetti come quello di “smart” da queste persone? Come si può ripartire da una politica che aspira ad essere nuova, con i soliti vecchi (e non è una questione anagrafica)? A chi scrive tutto ciò appare come un grande controsenso e un gioco di magia difficilmente perseguibile. Dunque, se l’idea di ricostruzione deve partire, come è a mio avviso, dalla ricostruzione della mentalità e del modo di fare politica, allora non può essere portata avanti da chi fino ad oggi ha dimostrato di agire in senso contrario. Chi ha cercato di barcamenarsi tra posizioni diverse, finendo per non assumerne nessuna e cadere preda di quella più forte, cioè, delle due, di quella che arrivava dall’alto. E diventandone uno strumento.
Senza queste considerazioni non c’è ragionamento su qualsivoglia smart city che regga. C’è una cittadinanza intera che ha voglia di riappropriarsi della propria città. Che vuole essere considerata e, a sua volta, fare delle considerazioni. Ma che non ha spazi. Dall’altra parte c’è una classe politica che ragiona in base agli interessi di partito, alla cosiddetta “politica di appartenenza” e che, pur di portare avanti tali interessi, è disposta a sacrificare il futuro della città. Come già si sta facendo, e come dimostrato dalla quasi inedita spaccatura interna tra partiti della stessa area politica in queste prossime elezioni amministrative. E, in mezzo, ci sono cittadini che avrebbero voglia di cambiare tale situazione. Non parlo di ricostruire la città dall’oggi al domani, né di avere tutte le soluzioni pronte per il futuro. Si sta invece parlando di reale volontà di farsi intermediari tra le esigenze della città e dei cittadini (esigenze che, a differenza di come si fa attualmente, non vanno interpretate a proprio modo, ma ascoltate e riportate) e gli attori che devono farsi carico di metterle in pratica (quelli che verrebbero chiamati “tecnici”). Nulla di più. Da questo modo di agire che potremmo definire “cittadino-intermediario-tecnico”, percorso che va fatto anche al contrario, laddove ci sia bisogno di maggior dialettica, diventando “tecnico-intermediario-cittadino”, parte la mia idea di smart city. La politica attuale è inutile a questo scopo, anzi ne rappresenta il freno più evidente.
Da qui nascerebbero e avrebbero forse possibilità di vedere la realizzazione nuove idee, e posso assicurare che ce ne sono tante. E c’è anche chi potrebbe metterle in pratica. Manca solo l’anello di congiunzione, che per oggi è la politica e non svolge tale compito. Io spero possa essere sostituita dalla Politica, che dovrebbe avere il solo dovere di ascoltare e riportare. In una città di sordi, aprire un orecchio a disposizione dei cittadini sarebbe la prima cosa “smart”.