di Anna Maria Colonna – L’Aquila. «Zona rossa», nel cuore del cuore della città. Tutto tace, tranne la pioggia. Penetra nelle crepe ben visibili sui muri dei palazzi. Si lascia tentare dalle finestre spalancate o senza vetri, da porte rimaste aperte chissà da quanto tempo. In questo angolo abbandonato del centro storico, l’erba continua a crescere fra le chianche delle strade. Le macerie, a distanza di tre anni dal sisma del 6 aprile 2009, sono ancora qui. Mostrano il «dietro le quinte» della ricostruzione. È il silenzio svelato da spazi chiusi al pubblico per via di una ferita troppo grande. La percezione dell’abbandono attraversa la pelle come l’acqua di un temporale di fine estate. Le impalcature si alternano ad edifici puntellati di sostegni in legno, immobili e muti. Sono stati messi in sicurezza, ma nessuno può attraversare la «zona rossa» senza il casco. I vigili del fuoco invitano alla prudenza e raccomandano di camminare al centro della strada. «Perché – dicono – qualcosa potrebbe ancora cadere». Fanno loro da guida nelle chiese frantumate dal terremoto e ancora chiuse in attesa di essere rimesse a nuovo. Ci vorrà molto tempo per restituire alla città i suoi pezzi di storia.
Pomeriggio in «zona rossa», i partecipanti
Siamo in tanti ad aver aderito a questo viaggio attraverso la zona più martoriata dal sisma. È stato organizzato nell’ambito del VI Congresso nazionale di archeologia medievale, ospitato a L’Aquila dal 12 al 15 settembre. E, in effetti, la maggior parte dei partecipanti è costituita da archeologi, architetti, studiosi. Appuntamento alla Fontana luminosa, caschi in testa e scarpe comode. Ma l’acquazzone ci sorprende quando il percorso è appena iniziato. Nonostante felpe, maglie e pantaloni siano inzuppati, proseguiamo il nostro cammino, lungo circa due ore. Prima tappa, la chiesa di Santa Maria Paganica, costruita nei primi anni del XIV secolo. Il sisma ha fatto crollare l’abside e l’intera copertura. L’interno è completamente occupato da sostegni e impalcature, ma l’acquasantiera solitaria che fiancheggia la porta d’ingresso parla di una devozione che ha compiuto centinaia di compleanni. Accanto alla chiesa, il settecentesco palazzo Ardinghelli.
I vicoli hanno registrato nelle pietre gli attimi del sisma. Le porte aperte di molte abitazioni lasciano intravedere massi e disordine. Alcune anfore sono cadute dal davanzale di un palazzo. Forse durante quella notte, forse dopo. Camminiamo tenendoci a debita distanza dagli edifici. Seconda tappa è il Duomo, nell’omonima piazza. Costruito nel XIII secolo, ha già subito i pesanti colpi del terremoto del Settecento. Attualmente è inagibile ed ha per copertura il cielo. Le piastrelle del pavimento fanno da «terreno» per alcune piante sbucate dal nulla. Il freddo penetra nelle ossa. Brividi dovuti alla maglietta inzuppata o a pensieri ballerini che si muovono davanti a queste immagini?La domanda rimbalza fra le pareti della chiesa di Santa Maria del Suffragio o delle Anime Sante, edificata nel XVIII secolo sempre in piazza Duomo. È la terza ed ultima tappa di questo viaggio nel cuore della città. Il terremoto ha causato il crollo quasi integrale della cupola. E il foro sul pavimento interno all’edificio ne è una conseguenza. Una parete provvisoria separa lo spazio aperto al pubblico da quello ancora inagibile.
Le macerie non sono un’attrattiva turistica perché rappresentano la parte più intima del dolore degli aquilani. Camminare in «zona rossa» significa prendere coscienza di un dramma che non finisce dove comincia la ricostruzione. Alcuni edifici appartengono a tutti e non possono più raccontare la loro storia, se non per frammenti.
È la storia di uomini e donne che sono nati e cresciuti qui. Di bambini e giovani che qui hanno visto il sole per la prima volta. È la storia di un amore per questa città lasciato scritto su un post-it: «L’Aquila bella me».
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