di Fulgenzio Ciccozzi – “Tutto fu ambito e tutto fu tentato. Quel che non fu fatto io lo sognai e tanto era l’ardore che il sogno eguagliò l’atto”. I poeti, in questo caso D’Annunzio, come si sa, precorrono i tempi e a volte ci accompagnano nel nostro cammino, magari cercando di renderlo meno tortuoso di quello che è nella realtà. Qualche giorno dopo il sisma ho voluto percorrere in solitudine, là dove era possibile, le vie del mio paese, Roio, e della mia città. Nel silenzio di quella desolazione sono stato avvinto da una forte commozione scaturita dalla consapevolezza di ciò che avevo perduto, e già convinto del fatto che nulla sarebbe stato più come prima.
I primi tempi ho lottato per cercare in qualche modo di riempire il vuoto che si era venuto a creare. Anche un arco in mezzo a quei vicoli o il portico di una scuola agognavo fossero recuperati. Poiché là, in mezzo a quello che adesso è divenuto un miserevole contesto urbano, c’era la gente con la quale ho vissuto e con la quale sono cresciuto.
Il tempo intanto passa e il pathos iniziale ha lasciato il posto alla realtà proiettata nella presa di coscienza di ciò che resta e delle difficoltà che sono sopraggiunte affinché si operasse una doverosa e attenta ricostruzione, senza che ciò lasciasse spazio alcuno alla rassegnazione. Con l’incedere del tempo mi sono convinto che quel mondo tanto amato, e che quegli edifici, nonostante malandati, mi ricordavano, non sarebbe mai più tornato. La carica emotiva iniziale ha dunque lasciato spazio a un’analisi più attenta della realtà per quanto indefinibile e imponderabile essa sia.
La gente che faceva parte di quel mondo non è più la stessa. Alcuni di loro non ci sono più. Nel frattempo, sempre più spesso, sguardi contriti, a volte astiosi, ritraggono i volti delle persone. Non è per tutti così, evidentemente. Ma tant’è. L’insieme di concause che si intersecano tra di loro portano inevitabilmente a ridefinire anche i rapporti sociali. In questo nuovo contesto i ricordi non possono che lasciare il posto alla razionalità che va piano piano occupando il vuoto lasciato libero dalle emozioni. La preoccupazione di recuperare i beni materiali, resa ancora più pesante dal dilagare della crisi economica che sta colpendo duramente le famiglie e i lavoratori, lasciano affogare i sogni nelle difficoltà.
Difficoltà che sommergono un’Italia affaticata che non ha più il tempo, la forza e forse nemmeno la voglia di rivolgere lo sguardo verso una città prima aiutata e poi abbandonata. Nonostante tutto e tutti, ognuno di noi porta con sé qualcosa del suo passato: le cose più belle, le cose più care, anche quelle più futili. Ma ciò che serbiamo di più caro, si sa, non è fatto solo di cose e case, per quanto importanti esse siano, ma soprattutto dei veri affetti che si sono momentaneamente allontanati quella notte di aprile: figli, sorelle, fratelli, genitori, nonni e amici.
E per chi ha avuto la sfortuna di perderli, alle preoccupazioni si è sostituito il dolore, che è ben altro sentimento. In questo pur difficile contesto è dunque opportuno restituire a ogni cosa il giusto valore e riflettere sulle iniziali divagazioni poetiche del “Vate” dalle quali ognuno potrà trarre le opportune conclusioni e provare semmai a trasformare i sogni in possibili occasioni.