Il Commissario Regionale per la liquidazione (o riordino) degli Usi Civici d’Abruzzo, Antonio Perinelli, con sentenza n. 102 del 02.12.2013, ha definitivamente dichiarato inesistente la promiscuità vantata e pretesa dal Comune di L’Aquila sui demani civici delle sue frazioni, (nel caso di specie delle frazioni di Filetto e di Preturo).
Il Comune di L’Aquila, preoccupato dalle rivendicazioni delle sue frazioni ed infastidito dal dover condividere le proprie scelte, su questioni a volte di rilievo, quale quella del Centro Turistico del Gran Sasso, dell’Aereoporto di Preturo, del Carcere Le Costerelle e di altre opere e servizi con le Amministrazioni Separate Frazionali, agli inizi del 1994, ritenne di proporre un ricorso dinnanzi al Commissario Regionale per gli Usi Civici finalizzato all’accertamento di una promiscuità generale su tutte (o quasi) le sue frazioni, rivendicando, così, una sua propria titolarietà su tutti i demani civici frazionali, compresi quelli amministrati dalle Amministrazioni Separate, erette dalle frazioni per la gestione dei loro beni collettivi.
La decisione, proprio per gli scenari futuri, merita un commento e propone alcune riflessioni da parte dell’avvocato, esperto di usi Civici, Rodolfo Ludovici.
L’iniziativa giudiziale comunale presenta varie e diverse criticità in quanto la finalità perseguita dal Comune di affermare una propria supremazia sulle proprietà collettive e civiche dei cittadini delle proprie frazioni non è conforme all’ordinamento dei c.d. usi civici, ma, anche per le scelte fatte proprie dal Commissario, quello che sembra possibile in questa sede, sottolineare è che sia stata risultata infondata e, quindi, rigettata.
La storia della fondazione della Città, così come ricostruita nella sentenza n. 102 del 2013, ci racconta di un grandioso patto sociale tra le popolazioni di molti castelli, insediati nel territorio che va da Navelli ad Amatrice, finalizzato a creare un insediamento fortificato di vasta estensione, capace, da una parte, di costituire un mezzo di difesa del territorio e, dall’altra, di consentire nuovi rapporti sociali ed economici, diversi rispetto a quelli che caratterizzano i singoli e più piccoli Castelli, connotati dall’immobilità del mondo rurale medioevale.
Si può ben dire, alla luce anche degli avvenimenti storici ricordati nella sentenza, che un simile patto sociale, qualunque ne fossero state le motivazioni, è stato generato o, almeno, fortemente condizionato, dall’entusiasmo per il fenomeno comunale e, contemporaneamente, dal sentimento di appartenenza ai suoi luoghi degli uomini che li abitarono.
La volontà di costituire una nuova realtà sociale e geografica non estinse, infatti, i sentimenti di famiglia e di contado dei nuovi cittadini aquilani che restano, comunque, legati agli antichi valori dei Castelli di appartenenza.
Pur nei limiti di un commento ad una decisione giudiziale sembra possibile rilevare che gli abitanti dei Castelli fondatori che trasmigrarono nella nuova Città (cives intus) non solo non abbandonarono il territorio dei Castelli di appartenenza, collaborando con gli abitanti che in essi continuarono ad abitare (cives extra moenia) alla loro gestione, ma portarono nella nuova realtà la loro cultura originaria e le modalità costruttive che avevano sperimentato in precedenza.
Di estremo interesse risulterebbe, in merito a questo trasferimento di idee, una comparazione architettonica tra le chiese dei Castelli e quelle realizzate in L’Aquila dai loro abitanti.
Le spinte di concentramento finalizzate alla costruzione della città, e quelle conservative dei valori preesistenti, sembrano tracciare dei cerchi concentrici che si inanellano gli uni agli altri, sollevando, ognuno di essi, problemi istituzionali e giuridici, vincoli economici e sociali.
Questa rete di relazioni è stata di grande rilevanza nella formazione della città di L’Aquila in quanto forti erano le ragioni che spingevano verso la costituzione del nuovo luogo di relazione come forti erano quelle legate ai sentimenti di appartenenza ai villaggi ed ai castelli feudativi.
Si attivò, così, un processo dinamico, continuo e dialettico, di cui il territorio della città dell’Aquila, sia cittadino che frazionale, sembra assumere la funzione di uno specchio che restituisce gli eventi umani che in esso si sono svolti.
Certamente nel decidere la vicenda della promiscuità, il Commissario ha dovuto basare il proprio convincimento su atti istituzionali, quali il diploma emesso il 28.09.1294 da Carlo II D’Angiò e quello del 20.12.1533, emanato dal Vicerè di Napoli, Pedro da Toledo, ma tali documenti sembrano, nella ricostruzione dei fatti, non determinanti della “migrazione di popolazioni dei castelli di Amiterno e Forcona…..onde sfuggire alla vessazione dei feudatari”, ma quasi una presa d’atto di quanto era già accaduto e di quella inconsueta conformazione sociale che le diverse popolazioni vollero e poterono darsi.
Sintomatico è l’ordine di distruggere i Castelli per non essere più ricostruiti, voluto da Corrado IV, non rispettato, tanto che parte della popolazione aquilana continuò a vivere in essi, determinando la distinzione fra i cittadini intus e cittadini extra moenia.
Altrettanto significativo è che il diploma del 1294 prevedeva una tassazione unica per la città dell’Aquila e non separata per i singoli castelli che contribuirono alla sua fondazione, e, nel contempo, che ai Castelli fossero restituiti gli originari demani.
Dunque il Diploma di Carlo II D’Angiò sembra adeguarsi a quella volontà di unificazione già espressa dalle popolazioni dei Castelli che fondarono la nuova realtà, costituita dalla Città dell’Aquila, e, nel contempo, rispettare i sentimenti di appartenenza e di famiglia che parimenti animava i propri cives (sia intus che extra moenia).
In altri termini, mutuando concetti antropologici, si può ritenere che il Diploma D’Angiò seppe cogliere un dato fondamentale e, cioè, che nella coscienza della collettività che formò la città dell’Aquila si mescolarono e vennero a sommarsi valori culturali propri del mondo rurale medioevale, caratterizzati dalle tradizionali attività pastorali ed agricole, immobili nel tempo, con quelli della civiltà comunale, permeati dal dinamismo della nuova realtà sociale e da una molteplicità di relazioni economiche e sociali.
L’entusiasmo per il fenomeno comunale, nel caso specifico dell’Aquila, non ha , quindi, travolto il carattere rurale degli insediamenti preesistenti alla sua fondazione e, proprio per questo la Città risulta uno degli esempi più evidenti di come un tessuto sociale, profondamente connotato dalla ruralità, possa esprimere un intelligenza costruttiva, una capacità di progettazione che ha fecondato e rinnovato i sistemi insediativi del Mezzogiorno d’Italia.
La mancata omogeneità di valori, le contraddizioni tra i valori rurali e quelli comunali hanno generato profondi contrasti, quale quello ricordato nella decisione commissariale con riferimento alla sentenza della Camera della Sommaria del 25.02.1771, che rigettò la richiesta di promiscuità svolta dal Comune nei confronti dei Castelli che la fondarono in quanto non risultava provata con un legittimo documento ed in quanto ove questa fosse stata provata “sarebbe una promiscuità leonina e ridonderebbe in solo vantaggio della città dell’Aquila ed in oppressione dei poveri cittadini delli castelli, li quali ne sentirebbero unicamente gravezza e nessun vantaggio ne ricorrerebbero. E per conseguenza anche se vi fosse pure dovrebbe disciogliersi e levarsi di mezzo….”
Nel contempo queste diversità hanno dato luogo ad un processo urbano imponente, che non si limitò a creare una delle più importanti città del meridione d’Italia ma che seppe cambiare e trasformare il precedente assetto sociale ed istituzionale.
Si potrebbe dire che nel territorio aquilano si determinò una strategia sociale che seppe sfruttare le opportunità del “luogo”, in modo diverso e migliore di quanto avveniva nel sistema feudale, e costruì una patria artificiale, intesa come relazione tra l’insediamento urbano e lo sfruttamento del territorio che trasformò la realtà precedente.
Se questo processo viene esaminato dal “basso”, senza lasciarsi fuorviare (come ha fatto il Comune) dagli atti ufficiali che intervennero ad istituzionalizzare il fenomeno sociale già determinato dalla volontà popolare, si può facilmente cogliere una realtà diversificata: la città dell’Aquila non formò con il suo territorio un corpo inseparabile in quanto esso continuò ad essere caratterizzato da un entusiasmo comunale, unificante, e da assetti proprietari propri del periodo feudale, che dividono e particellizzano il territorio.
I demani collettivi dei vari Castelli, costituitisi nel precedente periodo a seguito di profonde contese con i baroni e strappati loro, a volte, con liti furibonde, rimasero, dunque, in proprietà delle collettività che li conquistarono.
Si potrebbe giungere a ritenere che le scelte comunali da parte di queste popolazioni si determinarono, o almeno vennero profondamente connotate, dalla volontà di mantenere tali proprietà e tali rapporti proprietari, propri del periodo feudale.
Non può passare inosservata la circostanza, ricordata dal Commissario quale elemento del proprio convincimento, che con il Diploma di Carlo II D’Angiò del 1294,intervenuto dopo molti anni dalla fondazione della città e dopo la sua distruzione voluta nel 1259 dal Re Manfredi, i demani dei singoli castelli vennero restituiti alle singole popolazioni, senza alcuna distinzione fra coloro che li avevano in precedenza posseduti a secondo che vivessero all’interno delle mura cittadine (coves intus) o nei castelli originari (cives extra moenia).
Un simile assetto non venne modificato neppure dopo la conquista spagnola in quanto anche il Vicerè Pedro da Toledo, nel suo Diploma dle 20.12.1533, che le montagne del Comitatur aquilano rimanevano (e dovevano rimanere) nell’uso delle popolazioni dei Castelli.
La decisione emessa dal Commissario Antonio Perinelli è, quindi, conforme alla storia della Città dell’Aquila e pone fine a quella sorta di volontà di egemonizzazione che sempre ha trovato in alcuni ceti cittadini convinti assertori.
La sentenza, oltre a ribadire che la pretesa del Comune di L’Aquila è infondata ed ingiusta, come già ritenuto dalla Camera della Sommaria nel 1771, offre lo spunto per alcune riflessioni e considerazioni.
Nel caso della città dell’Aquila la presenza di demani civici di esclusiva proprietà dei Casali evitò quel fenomeno di accaparramento della proprietà fondiaria nelle mani di pochi potenti e la frammentazione delle grandi estensioni dei pascoli e delle foreste.
Ciò però non ostacolò l’intensificazione delle attività agricola, boschiva e pastorale in quanto l’affermarsi del Comune, quale unico centro giuridico ed amministrativo, dell’intero Comitatus, sostituendosi ai vari domini feudali che avevano, prima della sua costruzione e del suo riconoscimento, diviso e frazionato il territorio, permise lo sfruttamento delle ampie montagne e degli alpeggi, fino ad allora semideserti e non utilizzati se non dai monaci circestenzi, insediati nella grancia sita sul Gran Sasso.
Il nuovo assetto comunale determinò, infatti, una forte tendenza alla trasformazione dell’ambiente boschivo e pastorale di cui non si avvantaggiarono i soli cives degli originari Casali.
Il Commissario, nella sua decisione del 2013, ha avuto modo di sottolineare che gli Statuti Civitatis Aquile del XIV secolo prevedevano la necessità dell’aggregazione ad uno dei Casali che componevano la Città per il forestiero che voleva ottenere la cittadinanza aquilana.
Il fenomeno dell’aggregazione e, successivamente, dell’acquisto dei diritti di confocoliere dei vari casali, fu alla base di forme di acquisizione, da parte di potenti famiglie, soprattutto degli ampi alpeggi del Gran Sasso, che determinò una intensiva attività di allevamento del bestiame che, peraltro, alimentò, le attività artigianali ed industriali cittadine.
Dunque la separazione del Comune dai demani dei Castelli non solo non fù un fenomeno negativo per l’economia della Città ma sembra aver assunto un valore positivo e di crescita.
Tale distinzione tra le proprietà comunali ed i demani civici appartenenti alle frazioni deve, peraltro, comportare una riflessione che, almeno per me, sembra di fondamentale importanza.
Quanto sopra evidenziato oltre lo spunto ad una considerazione forse di maggior rilievo.
Il fatto che il Comune non possa disporre dei demani frazionali se non in accordo con le Amministrazioni Separate.
La nostra Costituzione è basata su un concetto di Stato Comunità che affonda le sue radici nel valore della persona umana, (ponendo, tra l’altro, lo Stato-amministrazione su un piano di parità con i privati), e comporta che il cittadino, singolo o associato, sia anch’egli titolare di poteri, non solo individuali, ma anche collettivi e per questo possa svolgere attività di utilità generale.
Di ciò ne dà testimonianza l’ultimo comma dell’art. 118 cost., dedicato alle attribuzioni delle funzioni amministrative, secondo il quale «Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà».
Si tratta, in realtà, del riconoscimento al cittadino non solo di diritti individuali (consoni ad una concezione che vede da un lato il singolo come dominus dei suoi interessi privati e dall’altro lo Stato-Amministrazione come monopolista della cura degli interessi pubblici), ma anche di diritti collettivi (consoni alla concezione dello Stato sociale di diritto), nel senso che egli può agire nell’interesse comune dell’intera Collettività, della quale è parte.
Tali diritti hanno il loro fondamento nel principio personalistico, che guarda alla persona non solo nella sua dimensione individuale, ma anche nella sua dimensione solidaristica, sulla quale, come si è visto, si fonda il suo bisogno naturale di associarsi e di formare una comunità.
Ed è da soggiungere che quando l’individuo esercita un diritto collettivo, un diritto cioè che mira al bene comune dell’intera Collettività, egli non deve far ricorso al principio della rappresentanza, non agisce cioè in rappresentanza della Collettività, ma come parte di questa, perseguendo così nello stesso tempo l’interesse proprio e quello di tutti gli altri consociati.
Si può dire, insomma che il cittadino, singolo o associato, prende parte attiva all’azione della pubblica amministrazione, agendo non solo nel proprio interesse individuale, ma anche come membro, e nell’interesse, dell’intera collettività.
Il suo status di cittadinanza, dunque, si è notevolmente allargato, tanto che la novità vera della politica delle libertà di questi anni è soprattutto la concreta e continua richiesta di una diversa distribuzione del potere .
La funzione amministrativa, in via generale, può finalmente giovarsi della collaborazione, e quindi anche del diretto controllo, dei cittadini, singoli o associati.
Sembra, per questo, fatto positivo un dialogo fattivo tra il Comune e le sue frazioni.