di Carlo Grante, Il Messaggero – Domenica 5 aprile, di ritorno a casa da un’indimenticabile pomeridiana teatrale a Roma – Albertazzi al Ghione – ero pronto a partire per far visita a mia madre, nella cui dimora aquilana alla “Fontana Luminosa” un mio pianoforte stanzia pazientemente chiedendomi di non essere ignorato troppo a lungo.
sua città metro per metro, ogni piccolo spazio è un microcosmo e una storia cui il singolo è raramente estraneo. Non c’è zona che non sia memore di una situazione, per quanto banale o transitoria, oppure di un ricordo intenso, esaltante o doloroso. I ”Quattro Cantoni”, “Capo Piazza” e “Pie’ di Piazza” – gangli sociali e fondamentali punti di ritrovo – i “Portici” (ognuna delle cui colonne si potrebbe numerare e intitolare al gruppo particolare di ragazzotti che vi si appoggiavano, i cui interessi comuni davano letteralmente il nome alla colonna), e così via, con un catalogo lunghissimo di nomi, luoghi, lontani pochi metri l’uno dall’altro ma che rappresentavano per noi aquilani un viaggio attraverso il “corpo” della città: le sue “membra” erano cariche di metafora e storia. Erano i luoghi dell’anima. Quando si cresce in un piccolo centro denso di particolari e di arte si è facilmente inclini a soffermarsi ossessivamente sul dettaglio; così le cose “diventano tristi e complicate”, fa dire Thomas Mann al suo Tonio Kroeger, ma il cittadino diventa artista del luogo che abita e non riuscirà a far meno della dimensione intima e riflessiva che la sua città natìa ha rappresentato da sempre, che continuerà a far sentire il suo richiamo per la vita.Una città al contempo ricca di storia, dal medioevo ad oggi, incuneata in uno scenario e una cultura montani, è molto singolare, difficile da immaginare, in verità. Queste due componenti di italiana provincialità e cultura da montanari contribuiscono a rendere l’aquilano orgoglioso, schivo e autosufficiente, ma anche generoso e aperto alla solidarietà della “cordata” e della condivisione, che diventa imbattibile soprattutto quando si è costretti a fronteggiare l’invincibile violenza della natura. La dignità con cui i miei concittadini stanno affrontando queste durissime ore è quella che incontri nelle culture montane, la loro compostezza e reciproca empatia è quella di chi si ristora nell’intimità e serenità del rifugio, che si rinfranca narrando con enfasi le gesta delle proprie avventure e che gradisce il clima freddo perché fa venir voglia di riscaldare l’ambiente – e con questo il cuore degli amici – col calore del camino acceso, ma soprattutto del proprio affetto. Quando a questo sostrato di cultura locale si aggiungono le grandi operazioni di diffusione culturale ed educativa (fra cui la musica classica), una grande attenzione alla tradizione e qualità gastronomica, all’autostima cittadina derivante da un grande amore per la città, alla cui bellezza architettonica si è voluto partecipare attraverso varie generazioni di famiglie, patrizie e non, a parte le scellerate speculazioni edilizie che finalmente non tarderanno ad assurgere agli onori di una cronaca vergognosa, si ha una qualche idea di cosa fosse – e sarà di nuovo, mi auguro davvero molto presto – L’Aquila. Per gli amici “…bella me”.