di Mariano Maugeri, IlSole24Ore – Ci sono morti leggere come piume, altre che pesano come montagne. L’Aquila è ancora sotto gli effetti venefici della scossa di magnitudo 6.3 che la notte tra il cinque e il sei aprile 2009 rase al suolo interi palazzi e seppellì 309 persone. Macerie fisiche e morali si sommano e spesso si sovrappongono, fino a delineare un’antropologia lontanissima dall’homo novus che ci si auspicava emergesse dalle rovine del sisma di cinque anni fa. La grande bruttezza dell’Aquila è una sequenza anonima di circonvallazioni sulle quali scorre l’esistenza di cinquantamila abitanti eternamente intrappolati nelle loro automobili.
Il vecchio centro storico, orgoglio della città rinascimentale, è come il generale Custer a Little Bighorn, strangolato da un labirinto di tangenziali. Le 19 new town della premiata ditta Bertolaso-Berlusconi come biglie gettate su un campo. Le zone bianche, aree a vincolo decaduto, quegli interstizi urbani che andrebbero ricuciti all’anarchia edilizia post-terremoto, commissariati dal Tar nell’attesa vana di un disegno urbanistico che il sindaco Massimo Cialente, rieletto due anni fa, ha declassato in coda ai suoi innumerevoli impegni mondani e politici, malgrado il vecchio piano regolatore risalga al 1975. I permessi di 36 mesi per le tremila casette di legno costruite su terreni agricoli da chi aveva avuto la casa distrutta in attesa di proroga o sanatoria.
Al caos urbanistico segue coerentemente quello organizzativo e politico. Con un paio di assunti fondamentali. L’Aquila è un maso chiuso con dieci famiglie egemoni e un’oligarchia politica cui è toccato in sorte di gestire 12 miliardi di aiuti che secondo le proiezioni più attendibili del ministero per la Coesione entro il 2019 lieviteranno fino a 22. Il verbo che li unisce tutti è il seguente: “La ricostruzione è cosa nostra”. Le tangenti e le inchieste tardive della magistratura (le ipotesi di reato che hanno portato all’incriminazione di nove persone risalgono all’indomani del sisma) sono il precipitato di un’approssimazione e di una serie di incompatibilità tutt’altro che casuali.
Tutti gli uomini di Cialente, insomma, medico pneumologo, ex deputato del Pds e sindaco riassunto recentemente part time all’Asl dell’Aquila, di cui è dipendente, con una laconica motivazione: “Lo stipendio da primo cittadino non mi basta”. La moglie, tanto per non confondere le idee, pure lei dipendente della Asl e promossa per meriti indiscutibili conquistati sul campo.
Che fa il sindaco in bolletta? All’indomani del sisma nomina delegato alla ricostruzione il consigliere di opposizione ed ex assessore alla Cultura Pierluigi Tancredi. Cialente viene sommerso da migliaia di sms di aquilani inferociti (nel 2009 la soglia di indignazione era altra cosa rispetto al disincanto di oggi). Tancredi, conscio di questa reazione popolare, si dimette da consigliere e diventa broker della Steda, la ditta di Daniele Lago, l’imprenditore veneto che da settimane narra ai sostituti della Procura i segreti inconfessabili sul giro di tangenti in Comune. Di meglio ha fatto Ermanno Lisi, geometra libero professionista con un’attività privata incentrata sulla ricostruzione edilizia che Cialente nomina assessore alle Opere pubbliche nella sua prima giunta.
Ci vuole una legge scritta dall’ex ministro Fabrizio Barca che riprende una vecchia norma del terremoto dell’Irpinia per sancire (il governo Berlusconi all’indomani del sisma era stato colto da temporanea amnesia) il divieto di ricoprire incarichi politici e attività economiche configgenti con quel ruolo. Se non sono incompatibili, i Cialente’s boy sono uomini d’apparato del Pd. Valga per tutti il vicesindaco Roberto Riga, poi passato all’Api di Rutelli, quello che avrebbe intascato 10 mila euro di tangente. Dice un consigliere comunale che vuole rimanere anonimo: “Quando ho sentito dell’arresto di Riga non mi sono stupito. Certe attitudini erano note a tutti”. Riga, per non sbagliare, ha affidato la sua difesa a Carlo Benedetti, avvocato molto noto in città nonché presidente del Consiglio comunale. Un ruolo di garante istituzionale che mette in forte imbarazzo il primo cittadino qualora decidesse di costituirsi parte civile.
Al vicesindaco va affiancata di diritto Stefania Pezzopane, la lillipuziana, ma solo per la statura, ex presidente della Provincia ed ex assessore comunale immortalata mentre trotterella accanto a uno spaesato George Clooney tra le rovine dell’Aquila. Innalzata allo scranno di senatrice, la Pezzopane, soprannominata superstefy, ringhia contro il ministro della Coesione Carlo Trigilia che ha osato criticare il dimissionario Cialente. Ma invece di sollevare la questione a Palazzo Madama sceglie il consiglio comunale all’Aquila, un luogo politicamente ininfluente. La sua scelta politica che tutti ricordano? Il bonus bebè di mille euro per altrettante puerpere-elettrici. L’errore più grande: aver bollato Matteo Renzi come uno di destra tranne poi iscriversi tra i renziani più sfegatati. Se questa è la classe dirigente, perché stupirsi di Mario Di Gregorio, detto il puntellatore, che decideva a suo piacimento a quale ditta affidare direttamente gli incarichi a prezzo pieno e blindato (senza gara non c’è ribasso) per ingabbiare strutture più o meno pericolanti? Il controvalore è stato calcolato in 180 milioni, su quali, ipotizzano gli inquirenti, gravavano tangenti dal 10 al 20 per cento.
Il maso chiuso aquilano ha le sue liturgie e i suoi sacerdoti. Laici e cattolici. La Chiesa, insieme al Comune, è l’altro grande attore della ricostruzione. Papa Bergoglio ha inviato il vescovo di Latina Giuseppe Petrocchi che si somma al vescovo ausiliare Giovanni d’Ercole, vicino al cardinal Bertone, e a Giuseppe Molinari, arcivescovo emerito che celebrò i funerali delle vittime del terremoto. In ballo c’è l’aspirazione della Curia a ottenere lo status di soggetto attuatore della ricostruzione di chiese, basiliche e conventi, un protagonismo osteggiato dal sindaco che sull’argomento ha scritto una lettera di fuoco al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il concetto è sempre lo stesso: la ricostruzione è roba nostra.
Tre vescovi, il sindaco squattrinato, la senatrice lillipuziana e dieci famiglie d’alto bordo in costante collegamento con la Capitale. La Regione Abruzzo, che peraltro va al voto tra qualche mese, brilla per sua vacuità. Vaticano, palazzo Chigi, Csm e Viminale sono i veri terminali della politica aquilana. C’è sempre una benedizione romana su ogni scelta-chiave del capoluogo abruzzese, con l’eccezione del cartellino rosso alzato dal ministro Carlo Trigilia (“chiedete sempre soldi, ma poi non sapete spenderli”). Era così prima del terremoto, lo è ancor di più di questi tempi.
La partita dei 22 miliardi muove interessi giganteschi. Sono in molti a pensare che Cialente, alla fine, non si dimetterà. Altre volte si è sfilato teatralmente la fascia tricolore e con nonchalance l’ha indossata di nuovo. Per sancire la sua insostituibilità, ieri il Pd dell’Aquila ha mobilitato le truppe cammellate di tutta la regione. È lui che tesse la ragnatela degli interessi in lotta tra loro per assicurarsi un posto in prima fila nella spartizione del bottino. La strategia, il metodo, un’azione trasparente di governo non interessano quasi nessuno. In nome di un futuro che non si annusa neppure, quei 309 morti, molti dei quali studenti di Ingegneria e Medicina schiacciati dal cemento alla vigilia degli esami, sono stati archiviati alla voce fatalità. Le città felici si assomigliano tutte, quelle infelici lo sono ognuna a modo suo, direbbe Tolstoj. L’Aquila è molte cose, tranne che una città felice.
Quella villetta di cemento su terreno agricolo
Tremila casette di legno piantate all’Aquila. Uno pensa ai paesaggi bucolici in sintonia con lo scenario in cui troneggia il Gran Sasso con i fianchi innevati che scivolano a valle. Niente di più sbagliato.
Qualche mese dopo il terremoto si decise che chi avesse una casa in classe “E”, dunque totalmente distrutta, potesse costruire delle casette di legno al massimo di 95 metri quadri in forza di alcuni requisiti soggettivi e oggettivi: essere residenti nei Comuni del cratere, non possedere altre case, che fosse un’abitazione provvisoria, quindi pronta a essere smantellata alla fine dell’emergenza, e non sorgesse su aree a rischio di dissesto idrogeologico. La provvisorietà e il successivo smantellamento implicano strutture leggere, preferibilmente in legno, costruite persino in terreni agricoli a patto che siano limitrofi ad aree urbanizzabili. Fatta l’ordinanza, ognuno si è sbizzarrito come ha voluto. Tanto che il Comune ha imposto la demolizione di una ventina di casette costruite a pochi metri dal greto del fiume Aterno, provvedimento sospeso ad hoc per il signor Giuseppe Gallucci, proprietario di diversi bar e parente dell’ex vicesindaco Roberto Riga. Sono cose che succedono.
C’è poi il caso del pm Fabio Picuti, pubblica accusa in molti processi del dopo sisma, compreso quella contro la Commissione grandi rischi, aquilano doc con una casa in classe E. Il magistrato, dopo due anni di defatiganti spole con Rieti, presenta domanda al Comune di Ocre, un tiro di schioppo dal capoluogo e, come racconta a Il Sole-24 Ore, si attiene “scrupolosamente” al dettato della normativa. La sua villa di color rosa sfumato, con un secondo piano a piramide e la cancellata di ferro con dei motivi a rombi che la circonda, è però un manufatto di cemento armato costruito su un terreno agricolo. Metratura? “Sono dettagli che non mi va di specificare” dice. In realtà sarà grande almeno trecento metri quadri, ma il magistrato precisa che i singoli Comuni concedono metrature più ampie in forza della dimensione del nucleo familiare.
Ora, le fattispecie sono tre: proroga del permesso, condono o demolizione a carico del proprietario. Il diritto amministrativo, spiega Picuti, “contempla altre possibilità, come l’acquisizione del bene al patrimonio comunale”. Quale sede migliore per una casa della legalità urbanistica?