Il ritorno di Matteotti. Scandalo alla vigilia del 97° anniversario del processo a Chieti

Dimissioni di Claudio Anastasio, che cita Mussolini in una email. Scandalo nazionale alla vigilia del 97° anniversario del processo Matteotti a Chieti

di Padre Gregorio (Fausto D’Addario) | 16 Marzo 2023 @ 06:00 | RACCONTANDO
Matteotti
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Nessuno si sarebbe aspettato, alla vigilia del 97° anniversario del processo Matteotti tenutosi a Chieti nel 1926, che un manager potesse dimettersi per aver citato le parole di Mussolini. Quelle parole con cui il duce rivendicava la responsabilità politica del delitto Matteotti. Eppure è quello che è successo a Claudio Anastasio, nominato dal governo Meloni manager di 3-I, la società di Stato che si occupa di gestire i software di Inps, Istat e Inail. In una email indirizzata ai componenti del Cda, Anastasio ha pensato bene di citare, come rivelato da Repubblica, il discorso che Mussolini tenne alla Camera il 3 gennaio del 1925. Di seguito il testo incriminato:

“Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l’arco di Tito? Ebbene, io dichiaro qui, al cospetto di Voi, ed al cospetto di tutto il governo italiano, che assumo (io solo!) la responsabilità di 3-I (politica! morale! storica!) di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se 3-I è stata una mia colpa, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho alimentato nel mio ruolo”.

Per rimarcare la gravità del fatto, un po’ di contesto non guasta. Il deputato socialista Giacomo Matteotti, “l’oppositore più intelligente e irriducibile” del regime fascista – come sarà definito da Piero Gobetti – il 30 aprile 1924 tenne alla Camera un memorabile discorso di denuncia ai soprusi e agli illeciti commessi dai fascisti durante le elezioni del 6 aprile. Il piatto era ghiotto: la legge Acerbo – dal nome del deputato abruzzese Giacomo Acerbo – assegnava i due terzi dei seggi alla lista più votata a livello nazionale. Ora, dal gennaio del 1924 gli attacchi di Matteotti contro il fascismo si erano fatti sempre più frequenti. “Uccidete pure me, ma un ucciderete mai le idee che sono un me”, aveva gridato fiero alle camicie nere. Ma quel discorso sarà la sua orazione funebre. E infatti per il duce era troppo: bisogna “dare una lezione al deputato del Polesine”.

La chiamata alle armi viene presto accolta. Il 10 giugno 1924 sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, a Roma, l’agguato. Il manipolo di squadristi era capeggiato da Amerigo Dumini; gli altri erano Augusto Malacria, Albino Volpi, Ettore Viola e Amleto Poveromo. Matteotti è aggredito mentre si stava recando al Parlamento. Chiede aiuto e cerca di resistere. Testimoni in strada e alle finestre. Urla, resiste; ma viene accoltellato più volte e portato via. Il suo ritrovamento sarà inscenato solo il 6 agosto a Riano, alla periferia della capitale, nel bosco della Quartarella.

L’incertezza sulla sorte di Matteotti spinse i gruppi di opposizione al cosiddetto Aventino. Le indagini dei magistrati Mauro Del Giudice e Umberto Guglielmo Tancredi avevano portato all’arresto dei cinque assalitori di Matteotti. Ma poco dopo, per volontà di Mussolini, le prove vennero occultate e il processo si fermò. Malumori e insofferenza anche tra le camicie nere. Mussolini decide di intervenire personalmente: il 3 gennaio 1925 riferisce in Parlamento: “Sono io, signori, che mi accuso in quest’aula”, tuona. E poi il resto, che il manager Atanasio ha pensato di citare nel suo comunicato:

“Quali farfalle cercheremo sotto l’arco di Tito? Ebbene, dichiaro qui, alla presenza di questa Assemblea, e di tutto il popolo italiano, che solo io mi assumo la responsabilità politica, morale e storica di tutto quanto è accaduto. Se bastano le sentenze, più o meno straziate, per impiccare un uomo, fuori il palo, fuori la corda! Se il fascismo non fu altro che olio di ricino e manganello, e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, la colpa è mia. Se il Fascismo fosse un’associazione per delinquere, io sono il capo!”.

Per ragioni di ordine pubblico, il processo contro gli assalitori fu spostato a Chieti, tranquilla città di provincia. L’Aquila e Chieti erano le candidate, ma se l’aggiudicò la “città camomilla”, come Alberto Mario Perbellini definì Chieti sul Resto del Carlino. Camomilla, perché placida, abitudinaria, prona al regime, non facilmente raggiungibile da Roma: epiteto non esattamente gratificante, se la pacificazione e la serenità furono portate nel capoluogo di provincia abruzzese a suon di strumenti fascisti.

Il processo compiacente di Chieti durò solo otto giorni, otto udienze dal 16 al 24 marzo, accogliendo così il desiderio del duce, che chiedeva la fine del processo entro il 28. Bisognava scongiurare il pericolo che l’Italia potesse “matteottizzarsi”. Gran dispiegamento di forze e sorveglianza strettissima: vengono presi di mira perfino dei colombi viaggiatori. Divieto di riprendere immagini in aula. Tancredi e Del Giudice sostituiti con figure più flessibili. Grande assente Velia, la vedova di Matteotti, resasi dignitosamente conto che, “per le varie vicende giudiziarie e per la recente amnistia, il processo, il vero processo, a mano a mano svaniva”. Presente invece Farinacci – originario di Isernia – che si fa avvocato di Dumini. Nella sua arringa, con toni decisamente politici rivolti contro le opposizioni, insulta l’operato politico di Matteotti e chiede l’assoluzione per gli imputati. Infine la sentenza: la Corte assolve Malacria e Viola per non aver commesso il fatto, ma Dumini, Volpi e Poveromo saranno condannati a 5 anni, 11 mesi e 20 giorni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. In realtà grazie ad un’amnistia generale vengono rilasciati dopo appena due mesi di detenzione.

Matteotti fu una spina nel fianco di Mussolini. E lo perseguitò come un fantasma: il duce era così consapevole che il processo Matteotti sarebbe stato riaperto dopo la guerra, che nella sua fuga si era portato dietro ampia documentazione di quei fatti per potersi scagionare da ogni responsabilità. Nel 1947 a Roma si celebra infatti un secondo processo e quello di Chieti venne annullato. Dumini, Poveromo e Viola sono condannati prima all’ergastolo, poi a trent’anni di reclusione. Dumini però esce nel 1956; Poveromo muore nel carcere di Parma nel 1953, mentre di Viola non si sapeva più nulla dalla caduta del regime.

Oggi più che mai, mentre il duce viene parafrasato da un improbabile nostalgico del Ventennio, è compito della sinistra italiana, alle soglie del centenario del delitto nel 2024, tenere viva la fiamma della vita e dell’opera di Giacomo Matteotti. Oggi più che mai è necessario guardare a Matteotti per la sua intransigenza morale e la sua passione politica.

Chissà se nel partito di Schlein e Bonaccini, a breve, non sentiremo gridare anche: “Io sono Giacomo”.


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