di Giancarlo De Amicis – Il paesaggio è il grande malato d’Italia. La città diffusa ne è solo un piccolo fotogramma che emerge dal processo di complesse trasformazioni silenziose. Come un fiume sotterraneo, queste attraversano il nostro Paese per emergere periodicamente nelle crisi e nelle recessioni economiche, ambientali, culturali, quali indicatori significativi di un fenomeno che riusciamo a percepire solo all’affiorare di immagini aberranti, di eventi calamitosi, di nuove forme di povertà. Non ne avvertiamo la continuità perché la nostra intelligenza e la nostra cultura occidentale tende a frammentare, isolare e stabilizzare ciò che invece è in continua trasformazione. Leggiamo la città diffusa senza sfogliare l’intero paesaggio in cui è inserita; leggiamo i centri storici e li accostiamo alle sfrangiate periferie urbane senza vedere il processo di trasformazione che li unisce, un processo che riduttivamente interpretiamo come semplice transizione, provvisorietà instabile collocata tra due realtà equilibrate, in un’ottica fondata sulla episodicità, sulla discontinuità temporale e spaziale, sull’isolamento di ciò che invece andrebbe percepito come totalità e continuità. Ma perché, il fascino dei nostri centri storici, delle bellezze paesaggistiche delle nostre Terre non si trasformano in impulsi, stimoli orientati ad un’architettura innovativa, capaci di bonificare le nostre periferie, di salvaguardare dall’incessante consumo il nostro paesaggio, di valorizzarlo e riportarlo alla dignità di Bene e Salute collettiva, per un benessere della mente e del corpo, piuttosto che essere profitto di pochi?
Il paesaggio, il grande libro sul quale è narrata e narriamo la nostra storia, scandisce ed esplicita le regole del nostro vivere civile, rivelandosi come luogo in cui si sedimenta e si esprime l’intricato rapporto della nostra vita privata e di quella pubblica, interprete dell’immediato vantaggio del singolo e del pubblico interesse della collettività, dei tempi corti degli affaristi senza scrupoli e della lungimiranza della Costituzione (Salvatore Settis). Viviamo nella consapevolezza di esistere in ambienti spaesati, di essere diventati individui fuori di luogo. Subiamo il fascino del paesaggio rurale e urbano della tradizione, ma ci sentiamo infastiditi dalla protervia della “città diffusa” che abbiamo contribuito a costruire, che si manifesta nel suo incessante e grossolano insinuarsi tra le pieghe del paesaggio agrario e dei centri storici. Leggiamo questi due fotogrammi come momenti separati di un lungo percorso, di una trasformazione silenziosa che non abbiamo saputo percepire e controllare. E’ un processo analogo a quello dell’invecchiamento. Improvvisamente un giorno, guardandoci allo specchio, scopriamo di essere invecchiati, per aver notato alcuni dettagli del viso che fino a ieri non avevamo scorto. Ripensiamo a come eravamo e a come siamo diventati. Ma l’analisi si ferma qui, non va oltre. La nostra percezione si fissa sulla lettura del nuovo fotogramma, sull’immagine statica separata da quella precedente. Senza proiettarsi nella gradualità della transizione, rimaniamo immersi nella falsa condizione di una stabilità illusoria – di una “immota manet” – che nel frattempo è diventata altro: nel libro del paesaggio è diventata la città diffusa, un arcipelago di isolette spalmato su un paesaggio in gran parte improduttivo. Ma tutto questo è comprensibile, perché anche noi siamo un arcipelago di isole, in cui ciascuno galleggia e si agita all’interno di un grande contenitore, chiamato società civile. Le nostre vite si svolgono dentro capsule materiali e immateriali – casa, macchina, abitudini, interessi privati – che fanno prediligere a quella pubblica, l’utilitas , la venustas e la firmitas privata, salvo poi rimettere poi nelle mani delle istituzioni – Stato, Regioni, Enti locali, partiti – il destino del proprio spazio e del proprio tempo pubblico. Una strategia perdente, contrassegnata dalla morte del pubblico interesse, dallo svuotarsi delle pubbliche istituzioni e dalla svendita del paesaggio, secondo un’economia di rapina, di consumo di suolo, di indifferenza per i valori identitari dei luoghi, che suscita sempre nuove forme di cupidigia, che attrae nuovi barbari e provoca nuove aggressioni. In questo tacito orientamento interiore – che in nome di una ipotetica affermazione individuale ci fa rinunciare all’esercizio della vita sociale – risiede la parte profonda del nostro iceberg di benessere. Una rotta che ci fa disgiungere i mali in compartimenti stagni, che ci fa separare la morte della politica dall’informazione ammaestrata, le speculazioni fondiarie ed edilizie dal degrado del paesaggio e dall’affermarsi della città diffusa. Essi sono legati tutti da un filo sotterraneo, costituiscono un unico grumo di misfatti e di peccati d’omissione che mescola vizi antichi e nuovi: la menzogna che il politico dice all’elettore e quella che ciascuno dice a se stesso, il silenzio delle classi dirigenti su abusivismo e piani regolatori rimaneggiati; tutti attentati alla vita del paesaggio (Barbara Spinelli). L’apatia dei cittadini è la migliore alleata di chi distrugge il paesaggio e lascia l’uomo in uno stato di sottile e persistente apprensione, simile a quella che Aung San Suu Kyi descrive nel libro Liberi dalla paura. “Potremmo essere freddi e limpidi. Come acqua in mani raccolte a coppa (del potere). Oh, ma se potessimo essere come schegge di vetro. In mani raccolte a coppa.” Le schegge di vetro, le più piccole, con la forza tagliente e luccicante di difendersi contro le mani che cercano di frantumarle, possono essere interpretate come il vivido simbolo della scintilla di coraggio indispensabile per chi vuole liberarsi dalla morsa di un paesaggio degradato, di una città diffusa.