di Germano Milite – “Sono 25mila i giornalisti precari in Italia (2/3 del totale). Il 62% di loro denuncia un reddito inferiore ai 5000 euro l’anno. Le cifre percepite, in assenza di una legge che regoli l’equo compenso, arrivano anche a 3 euro al pezzo”. Si legge così sul sito dello Youth Media Days che poi aggiunge:“Una vergogna chiamata precariato, che sta diventando sempre più condizione sistemica per tutto il mondo dell’informazione, minando le basi della qualità e della democrazia del giornalismo di questo paese”. Alla fine qualche giusta domanda:“Come uscirne? Quali vie percorrere? Come ripensare il sistema informazione alla luce delle nuove sfide imposte dall’economia e dai nuovi mezzi di comunicazione?”
QUANTO I PRECARI ALIMENTANO IL PRECARIATO?
Ecco, appunto. Il problema c’è ed è evidentissimo ma manca, ancora una volta, il coraggio di saltare a piè pari i muri della retorica ipocrita per dire le cose come stanno. Punto primo e relativo primo pugno nello stomaco: ci sono 25.000 giornalisti precari in Italia. Quanti di questi meritano un contratto a tempo indeterminato da 2000 euro netti al mese? Quanto di questi hanno una buona community di follower, sono esperti in social media, seo, approccio crossmediale e conoscono le basi dell’html e l’utilizzo dei CMS? Quanti di questi, cioè, hanno un grado di alfabetizzazione digitale in grado di presentarli come portatori di un valore aggiunto per le nuove redazioni virtuali? Qualche tempo fa Michele Santoro disse: “I giornalisti capaci non sono mai sul serio precari”. Senza dubbio una semplificazione provocatoria che, tra l’altro, non mi trova concorde in toto: esistono tanti bravi cronisti che continuano a non guadagnare abbastanza per colpa di editori avidi ed incapaci e colleghi arroganti ed altrettanto ingordi che vogliono godere fino alla morte della rendita di posizione maturata negli anni.
IL MERCATO EDITORIALE IN ITALIA
Come al solito, però, la questione è molto complessa e limitarsi ai soli numeri ed all’oramai famoso “equo compenso” serve a poco e, anzi, in alcuni casi risulta fuorviante. Prendiamo un caso concreto: i 3 euro a pezzo che vengono dati di media ad un giornalista che lavora online. Vi dirò una cosa che vi lascerà sconvolti: spesso sono pure troppi. Per capirlo, guarda caso, occorre conoscere un minimo l’ambiente digitale e l’editoria online (leggete questo interessante articolo de L’Espresso). Il Cpm medio in Italia è di circa 2 euro (la metà che in Germania) e, di conseguenza, un articolo che totalizza 1000 views, garantisce appunto un introito di 2 euro (lordi) all’editore. Occorre quindi fare la prima differenza tra testate tradizionali (Corriere, Gazzetta, Repubblica, Sole24ore) che ricevono anche fondi pubblici ed editori indipendenti che, come si sa, si autofinanziano al 100% con fondi privati e sopravvivono solo grazie ai ricavi (bassi) da banner e campagne advertising varie. Se un giornalista mi frutta in media 2 euro al giorno con 3 pezzi scritti, pagarlo 3 euro al pezzo, significa andare inevitabilmente in rosso. Se un giornalista non è in grado di comunicare bene sul web e di produrre articoli molto letti, sul mercato digitale, purtroppo, vale zero.
COINVOLGERE I LETTORI, MENO AUTOREFERENZIALITA’
E allora? Cosa fare? Prima di tutto credo sia vitale piantarla con l’autoreferenzialità frignona e coinvolgere anche i lettori nel dibattito sul presente e sul futuro del giornalismo in questo pese. Oggi servono ancora, e molto, i bravi cronisti. Anzi, se ci riflettiamo, ci rendiamo conto che servono cronisti molto più preparati, smaliziati e attenti di quelli di un tempo. Le informazioni sono molte di più e molto più confuse, così come la possibilità di commettere errori di valutazione e riportare bufale o notizie poco aderenti alla realtà. A questo si aggiunge poi la frenesia con la quale si “muove” l’informazione in rete. Insomma: visto che i giornali online che vivono di fondi pubblici sono un’esigua minoranza e che, grazie al mantra di Grillo ora molti utenti esigono un’informazione impeccabile quanto gratuita, il problema non è certo di tipo sindacale ma proprio di tipo sistemico e, aggiungo, culturale.
IL RUOLO DELLE “ISTITUZIONI”
Le istituzioni competenti in materia dovrebbero lanciare campagne dedicate al giornalismo online ed educare chi legge al sovvenzionamento volontario dello stesso. Lasciando l’editoria digitale nelle esclusive mani del “mercato”, la si destina ad un perenne abbassamento della qualità (che non viene premiata dal punto di vista economico) in favore della quantità e dei contenuti più sensazionalisti, frivoli e virali. E’ questo il tema che si dovrebbe affrontare in incontri interessanti come quello che si terrà al Pan di Napoli dal 21 al 23 settembre prossimi. Non si sconfigge il precariato cronico con i mezzi e le rivendicazioni del 1970. Non si combatte un mercato globale con leggi come “l’equo compenso” ma, al contrario, con misure studiate caso per caso ed in grado di adattarsi alla perenne evoluzione del mondo virtuale. Senza contare, ovviamente, che i primi a farsi un bagno d’umiltà e buon senso, dovrebbero essere proprio i giornalisti.