Garantisti (veri) e garanzie (virtuali)
avv. Gianluca Totani
di Redazione | 17 Aprile 2020 @ 12:02 | LA LEGGE E LA DIFESAL’AQUILA – Si intravede in fondo al tunnel della fase 1 la fioca luce di una possibile fase 2. Per la giustizia dovrebbe significare, pur con tutte le precauzioni del caso, la ripresa delle attività.
Un approccio corretto, soprattutto in una zona come la nostra, fortunatamente poco segnata dall’emergenza, consiglierebbe di procedere per step al fine di meglio organizzare il ritorno dell’utenza all’interno dei Palazzi di Giustizia.
La normativa emergenziale ha sì di fatto paralizzato la funzione giurisdizionale (facendo salvi alcuni tipi di procedimenti ritenuti urgenti: ad esempio le convalide di arresti e fermi) ma avrebbe anche previsto che, per il periodo compreso tra l’11 maggio ed il 30 giugno 2020, i capi degli uffici giudiziari debbano adottare “le misure organizzative necessarie al fine di evitare assembramenti all’interno dell’ufficio giudiziario ed i contatti ravvicinati tra le persone”.
E’ evidente lo spirito della norma: utilizzare il periodo di lock down anche per preparare il lavoro futuro alla luce delle nuove esigenze.
Sennonché è accaduto che -nel delirio da innovazione tecnologica che ha colto come un raptus un sistema che ancora non riesce neanche a digitalizzare gli atti dei procedimenti- in questa quarantena sia apparsa la possibilità di trattare le udienze da remoto attraverso piattaforme individuate dal Ministero della Giustizia negli applicativi Microsoft Teams e Skype for Business.
L’Unione delle Camere Penali Italiane ha immediatamente -e giustamente- stigmatizzato l’iniziativa del Governo e le realtà territoriali si sono dovute confrontare con gli uffici giudiziari per la redazione di Protocolli che limitassero al massimo la compressione delle garanzie difensive nell’applicazione di quella che è stata presentata come una iniziativa assolutamente temporanea e legata all’emergenza ma che -secondo alcuni- dovrebbe rappresentare il futuro della giustizia penale.
Ora che in Parlamento si discute della conversione in Legge del Decreto n° 18/2020 è spuntato fuori, ampiamente annunciato, un maxi emendamento governativo con il quale si vorrebbe estendere la modalità di trattazione delle udienze da remoto fino al 30 giugno (se non oltre):
- prevedendo la possibilità di celebrare anche processi nei quali devono essere sentiti come testimoni agenti di polizia giudiziaria, consulenti o periti;
- stabilendo che l’imputato deve essere collegato dallo Studio del proprio difensore (come se il rischio contagio debba essere sopportato solo dagli Avvocati);
- autorizzando lo svolgimento di camere di consiglio a distanza;
- consentendo, addirittura, atti di indagine.
In sostanza la smaterializzazione non tanto gli atti giudiziari ma dell’intero processo.
Molte sono le criticità che caratterizzano questo tipo di scelta.
Anzitutto il tema della riservatezza.
Se fossero state create per la celebrazione di processi le applicazioni da utilizzare si sarebbero chiamate Microsoft Trials oppure Skype for Justice; già il loro nome indica come , invece, siano strumenti nati per fini diversi come il confronto tra gruppi (teams) di lavoratori che operano da remoto su un progetto (di business) comune.
E nelle prime applicazioni questi sistemi hanno già mostrato tutti i loro limiti: chi ha avuto l’avventura di provare l’esperienza non può negarlo.
Ma il vero nodo è che si tratta di applicativi di proprietà di un soggetto esterno all’amministrazione della giustizia italiana.
Ed allora la domanda nasce spontanea: chi garantisce ed in che modo la riservatezza dei dati personali dei soggetti coinvolti in una udienza svolta attraverso questi programmi?
Questa è, in estrema sintesi, una delle domande che UCPI ha posto al Garante per la privacy.
C’è, poi, la questione che più direttamente tocca i principi costituzionali che regolano il processo.
Come può essere garantito in maniera concreta il contraddittorio se le parti sono relegate dietro uno schermo? come può valutarsi la credibilità di un testimone senza che chi lo interroga e chi ascolta la sua deposizione sia nelle condizioni non solo di sentirlo e vederlo in maniera chiara ma anche di percepirne la gestualità e le emozioni, cosa che solo l’ascolto in presenza può rendere?
Oppure, come può essere controllata l’attenzione che il giudice concede alle fasi del processo?
Un paese che da 30 anni fa fatica ad assimilare i principi del processo accusatorio può essere in grado di adattarli in 15 giorni alla sua versione telematica?
Questa è, in formato .zip, la sintesi della contrarietà dei Penalisti alla remotizzazione del processo, quella che abbiamo voluto testimoniare nei giorni di Pasqua sui social con l’iniziativa “con la toga sulle spalle e nel cuore”: per noi, la giustizia va amministrata nelle aule.
D’altra parte è chiaro a chiunque che la tecnologia deve aiutare e non ostacolare le attività umane; e questo deve valere anche per il nostro settore.
Ed allora perchè non utilizzarla in maniera corretta, tenendo in debito conto quelli che sono i mezzi attualmente a disposizione dell’amministrazione?
Si potrebbe, perciò, pensare di passare dalla fase 1 alla 2 attraverso una fase che potremmo chiamare 1,5, riportando -gradualmente e con tutte le precauzioni del caso- i dipendenti negli uffici, magari evitando loro di avere contatti con il pubblico.
Si potrebbe rendere, da subito, biunivoca la corrispondenza via pec con gli stessi uffici consentendo i depositi di atti (richieste di copie, liste testi, impugnazioni e quant’altro), cosa per lo più oggi ancora preclusa.
Si potrebbe iniziare ad organizzare la ripresa delle udienze secondo una snella ed attenta calendarizzazione che tenga presenti -in maniera puntuale- gli incombenti da svolgere (processi con poche parti, prime udienze, riti alternativi, discussioni).
Sarebbero tutti accorgimenti che potrebbero trovare applicazione immediata ma anche stabile nel futuro perchè non è in alcun modo ipotizzabile il ritorno al passato, quando 30 o più processi venivano fissati al medesimo orario.
Il “tempo” e lo “spazio” sono beni preziosi che d’ora in avanti dovremo utilizzare con profitto e rispetto degli altri.
Queste sono alcune, sobrie ma concrete, proposte che sono state portate all’attenzione del ministro Bonafede, uno che fino a febbraio abusava dei social e che ora sembra essere del tutto scomparso, sopratutto davanti al drammatico problema del sovraffollamento del carcere in tempi di epidemia.
Queste sono le proposte di chi è garantista vero e non vuole per il processo penale garanzie virtuali.