Flaiano, l’abruzzese e il cristiano

Flaiano: il Ministro Sangiuliano ricorda la sua figura nel cinquantenario della sua morte

di Padre Gregorio (Fausto D’Addario) | 20 Novembre 2022 @ 06:20 | ATTUALITA'
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PESCARA – Ennio Flaiano è stato ricordato, venerdì 18 novembre, presso la Sala consiliare del Comune di Pescara, in occasione del 50° anniversario della sua morte, avvenuta il 20 novembre 1972. Alla presenza del Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, che ha definito Flaiano un intellettuale poliedrico che ha lasciato un segno nella cultura italiana, l’evento ha visto visto la preziosa donazione all’amministrazione di alcune lettere inedite di Flaiano.

Sceneggiatore, giornalista, umorista e drammaturgo, autore del romanzo Tempo di uccidere – primo Premio Strega nel 1947 -Ennio Flaiano fu sempre scrittore dalla tempra indipendente, dall’estro satirico e dall’ironia inesauribile; con il suo occhiale indiscreto stigmatizzò la società italiana del boom economico e della speculazione edilizia, dell’opposizione tra il partito comunista e la democrazia cristiana, del cinema e della televisione, distanziandosi dalle formule convenzionali del mondo intellettuale.

Nato a Pescara il 5 marzo del 1910 – la sua casa Natale è ancora su Corso Manthonè – Flaiano ebbe un’infanzia tormentata, segnata da continui spostamenti in collegi e case altrui. Arrivò a Roma nel 1922, dodicenne che era, nello stesso treno in cui viaggiavano i fascisti diretti alla marcia su Roma. Nella capitale si svolse la gran parte della sua vita, ma quel bel mondo salottiero non riuscì a intaccare il fiero pescarese, con l’Abruzzo sempre nel cuore: pur lasciando la terra delle origini, mantenne sempre un ricordo vivo e nostalgico delle proprie radici. Lo testimonia un testo splendido, una lettera di Flaiano a Pasquale Scarpitti. Eccone alcuni brani:

Ciò che mi ha sempre colpito nella Pescara di allora era il buonumore delle persone, la loro gaiezza, il loro spirito. Tra i dati positivi della mia eredità abruzzese metto anche la tolleranza, la pietà cristiana (nelle campagne un uomo è ancora “nu cristiane”), – la benevolenza dell’umore, la semplicità, la franchezza nelle amicizie.

Quel senso ospitale che è in noi, un po’ dovuto alla conformazione di una terra isolata, diciamo addirittura un’isola (nel Decamerone, Boccaccio cita una sola volta l’Abruzzo, come regione remota: “Gli è più lontano che Abruzzi”); un’isola schiacciata tra un mare esemplare e due montagne che non è possibile ignorare, monumentali e libere: se ci pensi bene, il Gran Sasso e la Majella sono le nostre basiliche, che si fronteggiano in un dialogo molto riuscito e complementare.

Amico, dell’Abruzzo conosco poco, quel poco che ho nel sangue. Me ne andai all’età di cinque anni, vi tornai a sedici, a diciotto ero già trasferito a Roma, emigrante intellettuale, senza nemmeno la speranza di ritornarci. Ma le mie “estati” sono abruzzesi, e quindi conosco bene dell’Abruzzo il colore e il senso dell’estate [..] Dico sempre a me stesso che devo tornarci a “vederlo”.

Flaiano identifica la natura dell’abruzzese nel suo essere cristiano: una definizione che può suonare sorprendente per uno scrittore dallo spirito laico e desacralizzatore. Diventa più chiara nell’intervista che concesse all’amico Giuseppe Rosato qualche mese prima della sua morte:

Tu prima mi parlavi del Marziano a Roma. Ma il Marziano a Roma è un abruzzese. Se vai a vedere profondamente nella natura di questo personaggio, è proprio un abruzzese. Perché l’abruzzese è rimasto cristiano, non è diventato mai cattolico, con buona pace di chi vuol sostenere il contrario. Cioè è rimasto attaccato a un sentimento della vita molto felice, cristiano.

Apparentemente lontano dalla fede – celebre l’aforisma del Diario notturno: «Ora la verità, dal momento che me la impongono non m’interessa più» – l’interesse di Flaiano per la figura di Cristo è in realtà testimoniato da diversi suoi testi, dal soggetto I miei testimoni (1943) all’Uomo di Nazareth (1971), quest’ultimo commissionato da Franco Zeffirelli. Tra i suoi dattiloscritti c’è anche un progettato romanzo dal titolo Il Messia, la storia di Don Oreste de Amicis, che verso il 1870 si proclamò il nuovo Messia d’Abruzzo.

In una pagina, che risale al 1960 e porta come titolo Cristo torna sula terra, Flaiano immaginava come si sarebbe svolta una nuova discesa di Gesù:

Cristo torna sulla terra e viene assalito dai fotografi e dai cacciatori di autografi, tra costoro si mischiano spie della Questura, provocatori, ruffiani, agenti del fisco, maniaci sessuali, giornalisti, le solite prostitute, un comitato internazionale e alcuni sindacalisti. Nonché sociologhi, psicologhi, strutturalisti e cibernetici, che accompagnano biologhi, fisici e attori del cinema.

La folla comincia a chiedere insistentemente che faccia dei miracoli. Ed è qui che lo scrittore pescarese inserisce un cammeo che richiama in filigrana una situazione familiare delicata: quella della figlia Luisa soprannominata Lelè, che già dai primi mesi di vita cominciò a dare i primi segni di una grave forma di encefalopatia. Prosegue il racconto:

Un uomo condusse a Gesù la figlia malata egli disse: Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami. Gesù baciò quella ragazza e disse: In verità, quest’uomo ha chiesto ciò che io posso dare. Così detto, spari in una gloria di luce, lasciando la folla a commentare i suoi miracoli e i giornalisti a descriverli.

Una scena di grande intensità ed emozione, piena di quella tenerezza che Flaiano aveva per la sua creatura sofferente. Probabilmente in quel padre vedeva nient’altro che se stesso che si avvicinava a Gesù, non per ottenere il miracolo, ma il dono altissimo della condivisione e della comunione nella sofferenza. Forse anche lui, in quanto marziano abruzzese, è rimasto atavicamente cristiano e ci ha lasciato in quella pagina una grande lezione: Dio non ci protegge da ogni male, ma ci sostiene in ogni sofferenza.


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