Fase 2, all’Aquila doppio test per ripartire in sicurezza: come potrebbe funzionare
di Marco Signori | 21 Aprile 2020 @ 07:45 | ATTUALITA'
L’AQUILA – Doppio esame, test sierologico (prelievo del sangue), che “fotografa” il passato recente, e tampone (mucosa), che offre un’autentica istantanea. Due metodi con caratteristiche e prestazioni diverse in grado di offrire garanzie di sicurezza solo se svolti in modo integrato. Potrebbe essere questa la “ricetta” per l’agognata fase 2 dell’emergenza Coronavirus, a cui si sta lavorando anche all’Aquila, in particolare tra le imprese desiderose di riprendere l’attività dopo sei settimana di sospensione.
Riconoscendo gli anticorpi nel sangue, i test sierologici possono dire se l’infezione c’è stata e stabilire se il contagio è avvenuto circa un mese prima. Il tampone consente invece di individuare se si è contratto il virus e stabilire se è ancora presente nell’organismo o meno.
Il secondo caso, insomma, è quello che si sta applicando per la maggiore in Italia, ma va fatta attenzione, spiega Loreta Tobia, medico del lavoro del dipartimento Mesva dell’Università dell’Aquila: “I tamponi vengono effettuati solo su persone sintomatiche, o che si trovano o si sono trovate in zone endemiche, o sono venute in contatto con persone risultate positive. In questo momento si fa una selezione di pazienti, escludendo di fatto una parte di portatori sani che potrebbe essere quella che farà diffondere il virus se va in giro”.
“Quello che servirebbe e a cui si sta lavorando – dice la ricercatrice che si sta occupando proprio della riaperture delle aziende – è verificare lo stato attuale ma soprattutto se il virus è già stato contratto, e questo si fa analizzando il sangue e occorre unire le due indagini per essere garantiti dalla possibilità di essere portatori sani”.
Dall’analisi del sangue è possibile rilevare “se ho avuto il virus e sono guarito e sapere se ho sviluppato o meno l’anticorpo, di cui potrebbe essere presente la traccia, bisogna individuare il tipo di esame più adatto e con la più alta affidabilità e specificità per evitare di escludere persone che potrebbero essere malate senza essere analizzate”.
Il sistema integrato, sierologico e tampone, può dunque servire a “sapere se una persona ha incontrato il virus ma non è infettante, quindi può dirsi non solo ragionevolmente protetto, ma soprattutto non contagioso e se si reinfetta risponde con maggiore forza perché ha sviluppato gli anticorpi”.
“Se questo potrebbe essere utile per raggiungere l’immunità di gregge? Certo”, dice la Tobia, “potremmo andare a verificare quante persone hanno avuto il virus, sarebbe molto utile per le popolazioni lavorative”.
“In Corea ad esempio è stato fatto, utilizzando sia il test sierologico sia il tampone”, fa notare la dottoressa, che ricorda come i tempi per avere i risultati sono, in entrambi i casi, di poche ore.
In Italia, tuttavia, ci si scontra anche coi diritti costituzionali: “Non possiamo imporre a tutta la popolazione di fare accertamenti – spiega – la Costituzione permette a tutti di scegliere, nelle aziende è ad esempio necessario il consenso del lavoratore a meno che non venga fatta una norma”.
Allo studio, in ogni caso, dei protocolli per la ripresa delle attività lavorative in sicurezza. “Per reintegrare i lavoratori nel massimo della sicurezza, abbiamo ad esempio creato dei protocolli per il controllo della temperatura, il mantenimento delle distanze, le modalità del cambio abiti, le differenziazioni dei turni – spiega – , ogni azienda sta rispondendo cercando di diluire e ritardare il contatto tra un operatore e l’altro”.
La ricercatrice considera infine insufficiente il protocollo nazionale sottoscritto tra governo e parti sociali contenente misure di contenimento del contagio sui luoghi di lavoro: “Ha delle pecche che andranno superate, alcuni aspetti sono condivisibili e altri no, ma molte misure sono applicate già da tempo – afferma – il medico del lavoro partecipa costantemente ai comitati aziendali”.