Da Cappadocia alla Trinità di Vallepietra. Viaggio nel ventre della montagna 

di Fausto D'Addario | 04 Giugno 2023 @ 05:25 | ATTUALITA'
Da Cappadocia alla Trinità di Vallepietra
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Come ogni anno si rinnova, in occasione della festa liturgica della Trinità, il viaggio di pellegrini e devoti da Cappadocia e da tutta la Marsica al santuario della Santissima Trinità di Vallepietra, nel ventre della montagna. “Eccoci pronti per ospitare tutti i nostri pellegrini, fedeli e devoti alla Santissima Trinità che vorranno passare per il nostro Comune” ha dichiarato il sindaco di Cappadocia Lorenzo Lorenzin, che sta provvedendo alla sistemazione della strada di collegamento. Dal versante abruzzese, come da quello sublacense e ciociaro, sono decine le compagnie che si inerpicano fra i monti Simbruini, incedendo orgogliosamente con il proprio stendardo e senza indietreggiare di fronte alla fatica del cammino o alle condizioni meteo avverse.

Andiamo alla Santissima”: un richiamo arcaico e semplice verso un paesaggio incantato, verso un luogo di preghiera e raccoglimento, che congiunge Cappadocia e Vallepietra, unendo Abruzzo e Lazio, ma che è molto frequentato anche da pellegrini provenienti da altre regioni, come Campania e Marche. Di fronte a tanta bellezza, emozioni e turbamento; si ha la percezione quasi fisica di trovarsi a contatto con la divinità inesprimibile della Trinità. Un’umanità composita e varia, che si mette in viaggio – una volta si andava a piedi nudi – con tanta voglia di arrivare alla meta. Lungo il sentiero che porta al santuario, da una parte lo strapiombo, dall’altra è cresciuto un bosco di croci ferree, che le compagnie lasciano a memoria dei propri pellegrinaggi. I più forti percorrono a piedi in diverse giornate l’intero percorso, mentre gli altri compiono a piedi soltanto la salita finale: un viaggio che offre panorami inimmaginabili. Il Santuario, a pochi chilometri da Vallepietra, è aperto da maggio a ottobre, ma le date principali del pellegrinaggio sono due: la Santissima Trinità, festa mobile che cade la domenica dopo Pentecoste e il 26 luglio, memoria di S. Anna, madre di Maria, alla quale è dedicata una cappella a sinistra del santuario.

Luogo sacro da tempi immemorabili e punto di convergenza di antichi percorsi di transumanza, il santuario della SS. Trinità si trova a 1300 m. di altezza: è alloggiato su una larga spianata sottostante il fianco della montagna, una parete rocciosa mozzafiato che incombe dall’alto. Insieme al luogo di culto principale, una serie di grotte trasformate in cappelle e sepolture, probabilmente opera di eremiti e monaci basiliani, che avrebbero creato un centro di vita ascetica sul Monte Autore, alle sorgenti del Simbrivio, in seguito confluiti tra i monaci di San Benedetto della vicina Abbazia di Subiaco. Del resto la toponomastica dei luoghi è investita da un soffio orientale: il monte di fronte al santuario, fino al secolo scorso, era conosciuto come Monte Sion; sul lato abruzzese il paese più vicino è Cappadocia, come la storica regione della Turchia centrale. Per non parlare della devozione ai santi dell’Oriente cristiano. Un’altra ipotesi attribuisce a San Domenico di Sora o di Cocullo la fondazione del luogo, sulla base di alcuni accenni nella biografia del santo scritta da un monaco, suo discepolo.

Quale che sia l’origine, il cuore della devozione è un grande affresco bizantineggiante della Santissima Trinità, realizzato intorno al XII secolo e incorniciato da una fascia di foglie e fiori. A ben guardarla, è una Trinità non canonica: dipinte e ridipinte chissà quante volte in occasione di restauri più o meno infelici, a vivaci colori, le tre persone sante appaiono perfettamente identiche, in modo che non si sappia chi sia il Padre, chi il Figlio e chi lo Spirito. Come tre Cristi, essendo Cristo l’immagine visibile del Padre. Le tre persone, solennemente assise in trono, sono colte in atteggiamento benedicente, secondo il gesto tipico della tradizione greco-bizantina, unendo il pollice all’anulare. Così sedute, le tre figure sono alte circa 1 m. e 50; se si alzassero in piedi, si aggirerebbero intorno ai due metri. Proporzioni notevoli, che contribuiscono all’impressione suscitata nei pellegrini, nonostante il cancello che le separa da essi. Sotto l’affresco l’iscrizione che esprime il credo trinitario: “IN TRIBVS HIS DOMINVM PERSONIS CREDIMVS”. Al di sotto di questa iscrizione i restauri del 1962 portarono alla luce la raffigurazione, ignota fino ad allora, di un uomo intento ad uccidere un maiale, dove si legge: «lanuarius». È il mese di gennaio. Subito dopo si riconosce la figura di due uomini e la scritta: «Febru(arius)». Non ci sono dubbi che nel santuario, sulla parte bassa delle pareti, doveva essere stato affrescato l’intero ciclo dell’anno con i diversi lavori stagionali. A destra della lunetta con la Trinità inizia un ciclo con quattro riquadri: l’Annunciazione, la Natività, la visita dei Re Magi e la Presentazione al tempio. Poi alcuni lacerti di altri affreschi e tra questi, nella parete di fronte alla Trinità, sono raffigurati due santi, l’uno occidentale e l’altro orientale: il monaco benedettino S. Domenico di Sora – che per alcuni ricorderebbe il ritratto di S. Francesco al Sacro Speco di Subiaco – e S. Giuliana di Bitinia, protettrice delle partorienti, la cui festa cade il 16 febbraio. Ma qui il mistero si approfondisce: su questa stessa parete – oggi quasi scomparsa – era affrescata un’altra Trinità, più piccola, con le Tre Persone identiche, ma benedicente alla latina e recante scritte in caratteri gotici. Due Trinità in così piccolo ambiente; la domanda sorge spontanea: quale delle due è la più antica?

Il comportamento dei fedeli conserva ancora particolari tradizioni: entrando nel santuario, sfiorano con la mano la parte superiore della roccia ed escono poi a ritroso, per non dare le spalle e mancare di rispetto alla Trinità. È ancora frequente l’uso di tagliare piante e piccoli arbusti da riportare devotamente nelle case, o di raccogliere pietre per realizzare piccole montagnole o lanciarle dai ponti che superano il fiume, come simbolo della liberazione dal peso dei peccati. Il rito del “comparatico”, che consiste nell’immergere insieme le mani nell’acqua per unirsi in una sorta di amicizia spirituale, è quasi scomparso. Ma oggi l’evento più caratteristico della festa della Santissima Trinità è il cosiddetto “Pianto delle zitelle, che si tiene la mattina del giorno di festa. È una sacra rappresentazione, dove le donne di Vallepietra, vestite di bianco – tranne la Madonna, che veste di nero – portano un simbolo della Passione di Cristo o ne rappresentano un personaggio; intonano così un poetico lamento, una laude sacra composta all’inizio del ‘700, piangendo la morte del Signore. Il Pianto si conclude con un inno alla Santissima Trinità, invitando alla conversione, con accenti di grande partecipazione emotiva. Una curiosità: il documentario “Il Pianto delle Zitelle” del 1939 di Giacomo Pozzi Bellini, fu presentato e premiato al Festival del Cinema di Venezia, ma venne censurato a causa del forte impatto di alcune scene di massa, che non dovette risultare gradito al regime fascista. Da quel momento non fu più diffuso in Italia.

Dopo aver compiuto queste pratiche e partecipato alle funzioni religiose, i pellegrini fanno ritorno alle proprie case. Sperimentano così il pellegrinaggio nella sua verità più piena: nell’esperienza della fatica e dell’essenzialità, nella preghiera personale e nei riti collettivi, in un cammino simbolico della vita, che è tutta un pellegrinaggio verso il meraviglioso e ineffabile mistero d’amore della comunione trinitaria.


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