La scorsa domenica 21 aprile l’Abruzzo ha ospitato un evento di cui si sono accorti alcuni addetti ai lavori ma che ha avuto – e avrà in seguito, ho ragione di pensare – una risonanza internazionale per via dei tre soggetti coinvolti.
Il Centro Milanese di Terapia della Famiglia è da molti anni un laboratorio dove si sperimentano idee e pratiche per quella forma non solo di psicoterapia ma anche di pratica di cambiamento sociale, organizzativo e culturale che è l’approccio sistemico: un modo di avvicinare il malessere, psicologico o relazionale che esso sia, diverso da altri modelli di intervento perché parte da premesse diverse: cioè che gli individui sono come sono e fanno le cose che fanno perché stanno dentro relazioni; che sono definiti da una storia che è soprattutto storia di relazioni; che sono influenzati dai sistemi di cui fanno parte mentre, a loro volta, li influenzano. Che insomma, se si vuole capire la sofferenza o il blocco evolutivo di un individuo, di una famiglia o di un gruppo, non lo si può guardare come separato dalle proprie relazioni più importanti e dal contesto, e se si vuole aumentare le possibilità di trovare risorse e soluzioni non si può trascurare il prendersi cura di quelli.
Al Centro Milanese è nato un modo innovativo di fare terapia e interventi sistemici, un tempo soprattutto attraverso la cura della famiglia, oggi anche rivolgendosi all’individuo (ma continuando a pensarlo con un nodo di una rete di relazioni), alle reti di aiuto sociale, ai gruppi. Questo modo è diventato celebre fra i professionisti di tutto il mondo come “Milan Approach”, l’“approccio milanese”. I suoi maestri sono stati Luigi Boscolo e Gianfranco Cecchin (quest’ultimo morto nel 2004), che dopo anni di collaborazione e di ricerca con Mara Selvini Palazzoli, e dopo la scrittura di alcuni testi fondamentali, decisero di continuare autonomamente la propria strada seguendo una direzione che era loro più congeniale.
Il Centro è diventato così un laboratorio di idee in cui si lavora, si fa teoria, si insegna alle generazioni successive quel che emerge dall’esperienza e dalla riflessione teorica. Io, dopo aver studiato all’università di Roma, continuai la mia formazione dai due maestri di Milano. Dopo aver imparato il mestiere di psicoterapeuta con la loro guida e quella degli altri docenti del Centro, ho avuto l’onore di diventare parte di quel gruppo per contribuire per la mia parte all’evoluzione del modello e alla formazione delle nuove generazioni di terapeuti e professionisti sistemici.
Oggi affianca Luigi Boscolo alla guida del Centro Milanese Massimo Schinco, che come gli altri docenti segue una propria originale via di ricerca nell’ambito della terapia e delle relazioni. Sia come terapeuta che come codirettore del Centro, lavora col proposito di immaginare il futuro di un modello che non solo fa i conti ogni giorno con l’evoluzione dei contesti e della cultura nella quale cresce, ma che, mentre genera una pratica di lavoro, si confronta continuamente con essa e se ne nutre: e così non smette mai di evolvere e di produrre idee nuove.
Massimo Schinco ha lavorato sodo nell’ultimo anno per portare il Centro Milanese e due delle realtà internazionali fra le più influenti nel campo della terapia sistemica, il Mental Research Institute di Palo Alto e l’Ackerman Institute di New York, insieme davanti al pubblico italiano. Una specie di incontro al vertice della pratica sistemica: il 19 aprile a Milano e il 21 a Pescara (all’auditorium Petruzzi) i clinici di queste tre scuole si sono confrontati sui rispettivi modi di lavorare, sulle prospettive di sviluppo dei diversi modelli e su somiglianze e differenze fra tre filoni così importanti.
Con Mary Kim Brewster di New York e Eileen Bobrow di Palo Alto hanno dialogato Massimo Schinco e altri colleghi del Centro: Marco Bianciardi e Enrico Cazzaniga a Milano, Umberta Telfener e il sottoscritto a Pescara.
In più, l’incontro pescarese si svolgeva in diretta streaming con L’Aquila. Dall’altra parte avevamo i colleghi dell’Associazione Abitare Insieme, che hanno portato l’ottica di un gruppo di lavoro che opera in prima linea nel sociale, dunque in contesti più ampi del classico studio di psicoterapia. Contesti a cui i professionisti che si riconoscono nel “Milan Approach” rivolgono da decenni un’attenzione privilegiata. Gli interventi e le domande di Abitare Insieme hanno portato nel dibattito una forte sensibilità relazionale, una convinta consapevolezza dell’importanza di uno sguardo alla complessità che sta oltre il piano individuale (a proposito: grazie a Gianni Pappalepore per lo sforzo compiuto allo scopo di realizzare questo dialogo a distanza).
Dal canto mio, far parte di questa impresa è stato due volte fonte di soddisfazione: la prima, per il fatto di contribuire a portare la visione del Centro Milanese al pubblico dei colleghi abruzzesi; la seconda, per vederla confrontarsi con un contesto (quello aquilano e degli operatori del capoluogo) che reclama attenzione alle implicazioni psicologiche, relazionali, culturali. Se l’accento sui contesti e sulle relazioni è sempre più necessario per pensare il benessere dei cittadini, è addirittura indispensabile per una territorio e una comunità che devono rinascere e in cui la cura delle relazioni fra le persone e della loro memoria comune non è riuscita ancora a diventare una priorità.
Che il Centro Milanese sia tornato a casa fortemente incoraggiato da questo confronto abruzzese lo so per certo; che anche L’Aquila e l’Abruzzo ne possano ricavare, a breve o medio termine, idee e spunti per una convinta e reale presa in carico delle relazioni e delle appartenenze, è una speranza.