Coronavirus, l’esperto: L’Aquila aiutata da isolamento e densità abitativa
di Marco Signori | 15 Aprile 2020 @ 07:30 | ATTUALITA'
L’AQUILA – “Come per tutti gli altri virus e per gli altri agenti di malattie infettive, quando diventa endemico o sporadico, nel senso che la popolazione ha sviluppato sufficienti contatti e difese immunitarie, dovute soprattutto a strategie vaccinali, da poterlo considerare uno dei normali virus che determinano condizioni cliniche possibili in una popolazione”.
Così il professor Marco Valenti rispondendo alla domanda su quando ci si potrà considerare definitivamente fuori dall’emergenza Coronavirus.
È la cosiddetta “immunità di gregge”, spiega a L’Aquila Blog l’ordinario di metodologia epidemiologica del Dipartimento di Scienze cliniche applicate e biotecnologie (Discab) dell’Università dell’Aquila: “Di farlo scomparire del tutto non se ne può parlare certamente in tempi brevi – ammette – è possibile se ci saranno delle strategie vaccinali su scala di massa nel mondo intero, ma le malattie che sono state debellate radicalmente tramite strategie vaccinali sono pochissime, e i tempi richiesti sono dell’ordine dei decenni”.
Insomma ne usciremo anche senza vaccino? “La mia previsione – dice Valenti – è che entro l’anno saranno conclusi molti studi, anche di fase 3 cioè sull’efficacia, la confrontabilità e i profili di sicurezza, che consentiranno una rapida commercializzazione, ma certo non è pensabile che saranno immediatamente disponibili miliardi di dosi per vaccinare simultaneamente l’intera popolazione, anche perché ci vuole personale qualificato e piani strategici. Ma, date le forze e le risorse in campo, con l’impegno degli Stati e delle Organizzazioni internazionali, in particolare l’Oms, ritengo che nell’arco di un paio d’anni l’intera popolazione mondiale potrà essere stata sottoposta a strategie vaccinali significative”.
“Credo che non occorra aspettare che sia disponibile il vaccino per poter avere un ritorno ad accettabili condizioni di vita”, chiarisce comunque il professore. “Esattamente come prima? Non sarei così ottimista, qualche linea di difesa strategica di sanità pubblica andrà operata finché non c’è la vaccinazione di massa”.
“Certamente credo che per alcuni mesi, forse un anno, le grandi adunate di massa dovranno rimanere interdette”, rileva ancora Valenti.
Ma come si arriva all’immunità di gregge, cioè quella forma di protezione indiretta che si verifica quando l’immunità raggiunta da una parte significativa della popolazione finisce con il fornire una tutela anche agli individui che non l’hanno sviluppata direttamente, se è in atto l’isolamento sociale?
“È un processo lento – spiega il professore – In questa fase la necessità del distanziamento è per evitare il sovraccarico del sistema sanitario perché il virus è particolarmente aggressivo e ha una proporzione di casi gravi e ospedalizzazione molto elevata rispetto a malattie endemiche standard e non ci possiamo permettere di avere un’esposizione di popolazione molto grande perché ci sarebbe una quota altrettanto grande di persone che avrebbe bisogno di supporto. In questo momento quindi il distanziamento sociale è una necessità legata prevalentemente alla indisponibilità di strutture sanitarie, ma non perché siano ovunque deficitarie (su questo si può discutere, evidentemente) ma perché, per quanto fossero ottimali non ci sarebbe sistema sanitario al mondo in grado di reggere milioni di persone che hanno bisogno di cure sanitarie intensive o subintensive per una sola malattia”.
“Concettualmente l’idea che alla fine una quota rilevante della popolazione sia venuta o a contatto diretto con il virus o sia stata vaccinata e quindi abbia gli anticorpi è l’unico modo per poter riprendere condizioni di vita normali”, aggiunge Valenti.
“I colleghi epidemiologi dell’Imperial College di Londra e dell’Università di Milano, tra i principali esperti mondiali dell’epidemiologia teorizzano che in Italia vi siano intorno ai 10 milioni di persone entrate in contatto con il virus”, dice il professore, “è una cifra realistica soprattutto se si pensa al fenomeno che si è visto in Lombardia e riproporzionando il numero di casi all’intero Paese è ragionevole pensare che circa un sesto della popolazione sia venuto già in contatto con il virus”.
“La stragrande maggioranza ha avuto un contatto molto blando, quindi può essere del tutto asintomatica e quelle che emergono sono le situazioni di maggiori gravità”, fa osservare Valenti, “aumentando il numero di tamponi in questa fase vedremo sempre i positivi, questo è il problema”.
Sui dati forniti quotidianamente dalla Protezione civile, spiega poi il professore: “C’è un tecnicismo epidemiologico molto importante rappresentato dalla distinzione tra i cosiddetti casi incidenti, cioè i nuovi casi di malattia, e la rilevazione dei casi prevalenti, cioè quelli che già ci sono nella popolazione. In questo momento c’è un grosso equivoco perché ogni giorno vengono dati i numeri dei cosiddetti nuovi casi, il problema è che sono nuovi ai fini della rilevazione ma in realtà non sono nuovi nel senso che sono accaduti oggi, è semplicemente la nostra capacità di andarli a cercare che li rileva”.
In questo modo, chiarisce Valenti, non si ha un “calcolo effettivo della prevalenza della malattia sulla popolazione”, perché questo “non può essere fatto in un giorno o giorno per giorno, ma andrebbe fatto su periodi di tempo e utilizzando sempre la stessa metodologia”.
Il professore è poi sicuro che l’aspetto geografico e socio-economico dell’Aquila abbiano giocato un ruolo decisivo nella limitazione del contagio.
“La provincia dell’Aquila ha una densità di popolazione di 59 abitanti per chilometro quadrato, quella di Pescara di 160 – rileva Valenti – siamo tanti di meno in un territorio che è il doppio, la città dell’Aquila ha una dispersione territoriale enorme e la probabilità di incontrare persone è oggettivamente più bassa”, aspetti a cui aggiungere il fatto che “non ci sono grandi scambi, ad esempio non c’è una stazione importante”.
“Se anche l’inquinamento gioca a favore del virus? Molti studi lo dimostrerebbero – valuta il professore – anche se va di pari passo alla densità abitativa”.
Sulle riaperture, poi, Valenti afferma che è possibile procedere con una differenziazione geografica, anche se “gli abitanti della zona riaperta rischiano di essere esposti a maggiori movimenti” e non vanno sottovalutate eventuali problematiche di rilievo giuridico legate alla disparità di trattamento tra cittadini.
Un’ultima valutazione il professore la riserva alle ipotesi, di cui si parla con insistenza, relative alla possibilità che la popolazione africana presente in Italia possa essere immune al Covid-19 grazie ai vaccini cui è sottoposta al momento dell’arrivo, considerando la bassissima incidenza di contagi su persone di quelle nazionalità.
“Ci sono diverse teorie, c’è anche chi teorizza che l’esposizione al Cov1, cioè alle precedenti epidemie Sars, possa costituire un elemento protettivo, ma non ci sono evidenze scientifiche”, dice Valenti. “I giovani africani sono appunto giovani e come tutti i giovani sono molto meno suscettibili e in Italia sono una quota minoritaria della popolazione. Pensare che esista qualche fattore che li predisponga a livelli protettivi a me sembra difficile da teorizzare, punterei più su un discorso di carattere popolazionistico-demografico: ma immaginare che, avendo fatto una serie di vaccinazioni all’arrivo, hanno un sistema immunitario iperreattivo appartiene al novero delle ipotesi di lavoro, ed è la stessa ipotesi che sottende al fatto che i bambini siano meno esposti essendo sottoposti a vaccinazioni obbligatorie, ma non ci sono prove”.