Le offese a sfondo sessuale rivolte alle donne sono gravi. Così la Cassazione oggi ha bacchettato gli uomini: “Ogni volta che si deve offendere una donna è immancabile il riferimento ai presunti comportamenti sessuali della stessa; qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione l’uomo di norma non accusa la sua avversaria donna di dire il falso ma di “essere una pu… o una zo…, con ciò non solo offendendo gravemente la reputazione della donna ma cercando di porla in una condizione di marginalità e minorità”.
Nel caso in esame, la quinta sezione penale della Cassazione ha confermato in via definitiva la condanna per ingiuria inflitta a un uomo che aveva detto a una collega “sei una zo…”. Episodio avvenuto all’interno di un ospedale. L’imputato si era rivolto alla Cassazione sottolineando che vie era stata “reciprocità” nelle offese, poiché l’epiteto era stato pronunciato durante un diverbio tra i due, in cui la collega aveva accusato l’imputato di avere “brigato” per ottenere un incarico dal direttore.
Gli ermellini hanno rigettato il ricorso ritenendo “davvero singolare che un uomo, che si presume di cultura, non si renda conto della gravità di un tale comportamento e invochi la reciprocità delle offese” e sottolineando la “evidente sperequazione” tra le accuse che la donna aveva rivolto all’imputato e l’ingiuria subita.
“Sovente tra colleghi nascono discussioni, anche aspre e concitate – si legge nella sentenza – per motivi di lavoro”. Per sostenere “le proprie ragioni” accade che “si faccia ricorso anche a ironie e perfino ad accuse di scarsa attenzione, di impreparazione, di eccessiva vicinanza al capo dell’ufficio e simili, che non possono rientrare però nella categoria del fatto ingiusto che legittima l’uso di frasi pesantemente volgari e offensive”.
Le accuse che la donna aveva mosso al collega sono, secondo la Cassazione, “ricorrenti all’esito di concorsi: chi è escluso ritiene, quasi sempre che ciò sia avvenuto ingiustamente e grazie alle ‘manovre piu o meno lecite’ del concorrente vincitore”, ma “insinuare che si siano adottati tali comportamenti, non costituisce una grave provocazione che può legittimare la reazione offensiva perché si tratta di considerazioni e valutazioni che non sono contrarie al vivere civile”.
Per queste ragioni, la Cassazione ha ritenuto di condividere la condanna pronunciata nei precedenti gradi di giudizio nei confronti dell’imputato dal giudice di pace e dal tribunale di Messina. L’uomo dovrà anche risarcire i danni alla collega e pagare le spese processuali.