A Tomaso Montanari,
Forse, per restituire l’Aquila e i suoi monumenti ai cittadini aquilani ed alla nazione italiana, è ora [secondo il Vangelo di Tommaso (100,2-3)] di dare a Cesare quel che è di Cesare ed a Cialente quello che è di Cialente.
Voglio farlo da ex-insegnante semplice di Storia dell’Architettura che ho sempre privilegiato all’insegnamento di Disegno e Progettazione (o di Costruzioni e Tecnologia) perché convinto che, come nel salto in lungo, una valida rincorsa fosse il preludio d’una buona proiezione in avanti. Giacché persuaso che Architettura designi “una concezione ampia, perché abbraccia l’intero ambiente della vita umana”. Quindi: “non possiamo sottrarci all’architettura, finché facciamo parte della civiltà, poiché essa rappresenta l’insieme delle modifiche e alterazioni operate sulla superficie terrestre, in vista delle necessità umane, eccettuato il puro deserto. Né possiamo confidare i nostri interessi a una élite di uomini preparati, chiedendo loro di sondare, scoprire e creare l’ambiente destinato a ospitarci, meravigliandoci poi dinanzi all’opera compiuta, e apprendendola come una cosa bell’e fatta. Questo spetta invece a noi stessi; ciascuno di noi è impegnato a sorvegliare e custodire il giusto orientamento del paesaggio terrestre, ciascuno con il suo spirito e le sue mani, nella porzione che gli spetta, per evitare di tramandare ai nostri figli un tesoro minore di quello lasciatoci dai nostri padri. (W. Morris, Prospects of architecture in civilization, in On art and socialism, London 1947; tr. it.: Architettura e socialismo,Bari 1963, p. 3).
E da osservante esterno della vicende di questi quattro anni, quindi da credente che, se i rappresentanti della maggioranza dei cittadini aquilani davvero desiassero restituire L’Aquila e i suoi monumenti alla comunità locale e nazionale, già da tempo avrebbero posto in essere quello che, quarantotto mesi dopo il terremoto, gli Storici dell’Arte hanno chiesto loro efficacemente il 5 maggio 2013.
Se costoro veramente volessero la ricostruzione della polis (in latino, urbs od oppidum) cioè della città in senso materiale e della polis (in latino, civitas) cioè della comunità avrebbero iniziato un quarantotto contro la new town progettata dal Governo Berlusconi nelle quarantotto successive alle 3 e 32 del 6 aprile 2009.
Invece, questo progetto alternativo alla ricostruzione com’era e dov’era della città (delle case, degli opifici e dei monumenti danneggiati o crollati) fu sostanzialmente assecondato purché spezzettato in C.A.S.E. (senza alcun opificio, negozio e spazio per la vita comune) localizzabili prevalentemente “vicino alle frazioni” più lontane. Più che altro per salvare dall’esproprio per pubblica utilità i terreni di maggior valore prossimi al centro storico. Cosicché, diciannove nuovi quartieri meramente residenziali (in modo blasfemo nomati new town dai costruttori di Cesare) furono trasformati in luoghi di deportazione della popolazione sfollata dal centro storico aquilano per colpa del sisma e del credo, in pio modo, d’urbanisti di Cialente.
Se costoro decisamente desiderassero la ricostruzione non deviata da interessi privati l’avrebbero attuata immediatamente inserendola in una pianificazione urbanistica governata dalla mano pubblica.
Invece, mentre la Protezione civile di Bertolaso curava il passaggio dalle tende alle 183 nuove case dei 19 C.A.S.E., l’incivile protezione d’interessi speculativi e clientelari privati favoriva la costruzione d’una miriade di casette d’emergenza e di progetti di nuovi insediamenti residenziali e commerciali. Ovunque e comunque. In variante o secondo le previsioni d’un vetusto strumento urbanistico. Tanto inefficace per la pubblica utilità quanto fecondo per la privata proficuità. E mentre le risorse governative certe finivano prevalentemente nelle tasche d’italici costruttori ed arredatori delle new town (giacché solo le briciole andavano ad urbanizzatori, impiantisti e fornitori di torroni locali), le risorse incerte venivano progressivamente dilapidate da controllori (nazionali, regionali, locali; di ruolo e di nuova nomina), di progettisti, di contabili, di facilitatori ed affini. Pianificando realmente (cioè dilazionando all’inverosimile) la ricostruzione della città. Tergiversando nel fare Piani Strategici inutili e Piani di Ricostruzione fasulli. Evitando rigorosamente di rifare il Piano Regolatore Generale ed abbandonare quindi la concertazione pubblico-privato per la realizzazione di NUOVE costruzioni ad immagine e somiglianza delle finte new town berlusconiane. Cioè dotate di sola urbanizzazione primaria. Perciò contro la legge che, dal 1968, impone la realizzazione contemporanea di abitazioni e di pubbliche attrezzature per la vita della comunità.
Se costoro concretamente concupissero rinunciare ad ogni progetto di trasformare l’Aquila in una sorta di Aquilaland, non avrebbero dovuto assecondare neppure la costruzione di teatri lignei nei luoghi dove stazionava il baraccone del tiro a segno. Nonché il trasferimento del mercato, dalla apposita piazza centrale, alla periferica Piazza d’Armi, allestita con piattaforme ellittiche di cemento e virtuali teatri a forma di liuto.
Se costoro effettivamente esigessero che L’Aquila risorga com’era e dov’era non avrebbero caparbiamente rifiutato di fare un semplice Programma Pluriennale di Attuazione della Ricostruzione. Che escludesse categoricamente ogni nuova opera fino alla chiusura di tutti i cantieri deputati a costruire quanto danneggiato e reso inservibile dal movimento tellurico dell’ultimo lustro. Ben prima di salire sulla barca di Barca per fare etichette con un cronoprogramma inattuabile da appiccicare ai muri ammuffiti delle case e dei monumenti. Inattuabile per mancanza di fondi certi che il Ministro per la Cooperazione ha rinviato fino all’ultimo giorno d’evidenziare a Monti e a “valle”.
Se costoro realmente reclamassero che la prima urgenza della politica nazionale fosse quella della difesa e della ricostituzione del patrimonio culturale, non avrebbero improvvisato periodiche stizzose rivendicazioni di governance e teatrali manifestazioni d’ammaino di bandiere e/o dismissioni di fasce tricolori. Avrebbero preteso (non elemosinato) che fosse stanziato quanto tutto quanto necessario ed indispensabile alla rinascita della città e della comunità. Senza il ricorso al gioco d’azzardo ed il beneplacito dei m.e.r.c.a.t.i.. Con il consenso della comunità partecipante e non solo della giunta concorrente.
Se costoro sul serio stabilissero di lasciar fare ai cittadini che credono nel diritto d’avere il diritto di ….!
Luciano Belli Laura