Capetièmpe e il ritorno dei morti: la commemorazione dei defunti in Abruzzo
di Fausto D'Addario | 02 Novembre 2023 @ 05:22 | RACCONTANDO
Capetièmpe (Capotempo) è il vero capodanno abruzzese, un periodo che cade tra il 31 ottobre, la vigilia d’Ognissanti e l’11 novembre, festa di San Martino. Ricco di immaginazione popolare e consuetudini arcaiche, il Capetièmpe dei borghi abruzzesi, specialmente nella Valle Peligna, era legato alla commemorazione dei defunti e ai cicli del mondo contadino: i riti comprendevano banchetti e feste nei cimiteri e tavole imbandite per il ritorno dei morti, suggestive processioni con candele e falò propiziatori, la questua dei ragazzi mascherati casa per casa tra scheletri e zucche. Gesti, parole, canti e oggetti con virtù e poteri specifici: la ritualizzazione era il modo più antico e universale di incantare e vincere l’angoscia della morte. Così il Capotempo peligno, mirabilmente narrato da Vittorio Monaco, possiede tutti gli elementi delle tradizioni celtiche di Samain e della più nota festa di Halloween. O per amore o per forza, nel corso dei secoli figure divine e miti pagani della religione popolare precristiana, che non si potevano sradicare, vennero per così dire mascherati – visto il periodo – nelle feste del calendario e nel culto dei santi e dei morti.
Il tempo è un enigma che fugge e ci sfugge: dalla nascita alla morte gli eventi della vita si risolvono su una linea retta, una freccia a senso unico, in cui la vita sporge per un momento dal nulla e poi nel nulla rientra. Nella sensibilità dei nostri contadini abruzzesi c’era un’idea diversa: osservavano l’alternarsi del giorno della notte, misuravano il ripetersi delle stagioni, erano molto attenti all’avvicendarsi delle fasi lunari; questo movimento cosmico suggeriva l’idea del circolo e della ruota, l’idea di un tempo che torna periodicamente su se stesso: il mistero della ciclicità di tutto il vivente. È proprio vero, scriveva Platone nel Timeo, che il tempo è un’immagine mobile dell’eternità, perché la storia che conta davvero è quella dell’uomo nei suoi rapporti con la natura, fatta di cicli che sempre ricominciano. Anche la vita dell’uomo quindi non finiva con la morte: continuava modo diverso, anche se in forma umbratile nell’oltretomba. Monne è state e monne sarà, recitava un proverbio dell’area peligna.
Uno dei momenti più fragili di questo anello temporale era la crisi del tempo autunnale: il ciclo produttivo dell’anno si chiudeva con gli ultimi raccolti, con la vendemmia e la vinificazione: in San Simone e Giuda [28 ottobre] sono finite le fìcora e l’uva. Le foglie cadono, la natura appare spoglia e stremata, la luce viene meno e nebbia e brume oscurano la fioca luce del sole. Sembra il ritorno al caos delle origini: morte e vita cessavano di essere separati e nel rimescolamento generale le anime dei defunti escono dall’oltretomba per fare capolino nello spazio dei vivi. Nella cultura popolare i contadini abruzzesi immaginavano l’aldilà come un luogo squallido e buio e le profondità della terra diventavano l’effettiva dimora dell’anima dopo la morte. Il morto conduceva un’esistenza stentata e toccava ai vivi alleviarla con banchetti e offerte di cibi. Guai a dimenticarsene! Il defunto a cui si faceva mancare il pasto funebre diventava uno spirito cattivo, pronto a vendicarsi della trascuratezza dei vivi.
A Pacentro la festa dei santi era un tutt’uno con quella dei morti: qui, come nella maggior parte dei comuni d’Abruzzo, dalle prime ore del pomeriggio di Ognissanti fino a notte inoltrata, era uso suonare a lungo le campane a morto. Altra usanza era quella di lasciare ceri accesi nelle chiese, nelle case e nei cimiteri, le cui lingue di fuoco davano ai nostri borghi un aspetto fantastico e spettrale allo stesso tempo.
A Pratola, ma anche in altri paesi come Raiano, Pettorano, Rocca Pia, Scanno, Villalago e Castrovalva, una fitti serie di candele e lumini segnalava ai morti la strada del ritorno verso quelle che erano state le loro case: le porte venivano lasciate socchiuse tutta la notte per permetterne il rientro.
A Raiano la celebrazione in suffragio dei morti era un vero e proprio ufficio delle tenebre: nella notte tra il 1 il 2 novembre si andava molto per le lunghe, perché oltre alla messa si cantava per intero l’ufficio dei defunti, con gli immancabili Dies irae e De profundis.
A Introdacqua si ricorda forsa la più famosa processione dei defunti, detta la Scurnacchièra, che la tradizione voleva sfilasse tra le stradine del paese nella notte di Ognissanti. Teri teri tera, e mo’ passa la scurnacchièra, era la filastrocca che si sentiva ripetere. Un sacerdote defunto celebrava messa per tutte le anime radunate in chiesa tra pianti e sospiri; quindi tornavano alle loro case per prendere il cibo lasciato sulle tavole apparecchiate per loro. L’immaginazione popolare arrivava a descrivere perfino l’ordine di questa macabra processione: in testa procedevano i bambini nati morti, seguivano poi i fanciulli morti poco dopo il battesimo, poi i ragazzi e le ragazze morti giovani, quindi gli adulti e a chiudere il corteo gli anziani, tutti un cero acceso nelle loro mani stecchite. La gente del paese non doveva uscire di casa né affacciarsi al balcone al loro passaggio. Una credenza che è attestata in altri paesi dell’area peligna con versioni differenti.
La tradizione più caratteristica, soppressa con difficoltà soltanto dopo l’unità d’Italia, era il banchetto funebre di Sulmona. Il 2 novembre i sulmontini si riversavano al camposanto in processione: dopo aver ascoltato la messa, si finiva per banchettare sulle tombe dei cari estinti. Processione, messa, rappresentazioni figurate: il trionfo del banchetto era il trionfo della vita sulla morte, come a dire che la morte non è la vera conclusione dell’esistenza umana, è solo un passaggio ad una nuova forma di esistenza.
C’erano altri morti per nutrire i defunti, oltre a lasciare la tavola imbandita la notte tra il 1 e il 2 novembre: era l’elemosina ai poveri e vagabondi, praticata a Sulmona, a Prezza, a Vittorito e a Popoli. Anche in questo caso era l’incontro tra due tradizioni, quella pagana dei morti e quella della carità cristiana. Si distribuivano i granati, un miscuglio di grano e legumi, che rappresentavano i semi affidati alla terra e ai morti, per propiziare il potere della fertilità della terra. I contadini facevano regali in natura alle parrocchie, perché il prete li donasse ai poveri a suffragio delle anime. Il rito di questua più significativo era quello di fare il bene ai poveri e ai bambini. Poveri e bambini: due categorie di invisibili, ma che in questi giorni godevano di grande visibilità rituale. I ragazzi erano sentiti come rinascita degli antenati e fare loro un’offerta significava farla alle anime dei trapassati. A Pratola la sera di Ognissanti i ragazzi s’imbiancavano la faccia di farina e cenere e andavano a bussare di casa in casa per ricevere le bene, dei donativi, dagli adulti; a Pettorano sul Gizio i bambini giravano mascherati da spiriti, riportando doni in frutta e ciambelle sospesi su un palo.
E così con questi riti solari, funebri, di purificazione, di passaggio e di fertilità, i nostri antenati abruzzesi credevano possibile ritessere la trama del cosmo e tornare, ogni volta da capo, a riannodare i meandri del tempo.