Bruno Sabatini, Le Pagliare rivisitate, Romanzetto in versi
A Luisa Prayer
Fanciullo anteguerra al mio paese
la bella estate splendeva
due volte l’anno
chiusa la mietitura a valle bruciate le stoppie
si transumava a monte a replicare in azzurro
il rito del grano maturo
a guardare la casa
a frequentare piazza e vicoli
restavano
parroco podestà e pochi vecchi
per lasciare il borgo
tre ore di sentiero
aspro
in erta salita
a giravolte
in equilibrio sui basti
tutte le vettovaglie
alti sul valico, quota
oltre i mille, avanti ancora
sino ad avvistare Le Pagliare
grigie di pietra, ai limiti
dell’ampia piana dove
il bosco finiva e cominciava il grano
le guardava da sempre
come pastore la greggia
il Sirente
le pendici estese faggete
le cime roccia incielata
a fine viaggio
si spalancava al sole la pagliara
la dimora d’una sola stanza
sovrastata dal fienile odoroso
l’ indomani si entrava
nell’afa dell’altra mietitura
sovrumana e paziente la fatica
tra le spighe granite,
la schiena ad arco,
gli attrezzi primitivi,
mancava il privilegio della ruota,
nessuna strada larga,
soltanto sentieri
di sassi e biancospini,
tutto il trasporto a spalla
o avvinghiato sui basti
inebriati di stanchezza
si tornava dai campi al tramonto,
il Sirente
un tripudio di linee di luci
e di silenzi,
parca la cena,
breve nelle notti brevi
l’invasione del sonno
presto schiariva l’alba
senza il canto dei galli
– non avevano pollaio Le Pagliare-
spettava a un concento di uccelli impazziti
dare il saluto al nuovo giorno
una di quelle estati il dieci giugno
novecentoquaranta
via radio una voce roboante
saccente dava l’annuncio
iattura dell’entrata in guerra
tutti da quel giorno a indagare
il destino a iniziare di mai finire
d’aspettare la pace
la montagna quell’anno
la salirono controvoglia,
il silenzio negli occhi,
soltanto gli anziani
a ciascuno due volte il lavoro
i giovani il groppo alla gola
salirono
“quel lungo treno che andava al confine”,
non pochi
muniti del biglietto
di solo andata
per cinque lunghi anni
tutta al femminile
la gioventù che fioriva Le Pagliare
passata la prova delle lacrime
mutavano a velocità esplosiva
usanze e costumi
si presagiva un domani
come prima non mai
il progresso, bottino inatteso
d’una guerra perduta,
s’insinuava dovunque
sui terreni a valle
il contadino, congedati i buoi,
apriva i solchi seduto sul frastuono
accattivante del trattore,
la schiena eretta,
la stanchezza leggera,
artigliando febbrile al volante
la mano dapprima esperta
nella guida lenta dell’aratro
percorreva avanti indietro
il campo
in confidenza con la mietitrice
a ricevere,
confezionate in covoni,
le spighe recise
falce vanga bidente
giacevano riposti
valutati ormai cimeli da museo
appesa la conca al chiodo, affrancata
del paiolo e dei fornelli,
la massaia governava alla fiamma
della bombola a gas
frigo radio e giradischi
affiancavano la madia
la ragazza con vispa leggiadria
recideva la treccia, profilava
di cinabro il sorriso, accorciava la gonna
sulle gambe che si facevano lunghe
intanto che la nonna, lo scialle
sulla schiena ricurva, la cuffietta
ancorata al sottogola, si segnava
– o tempora, o mores! – la fronte e il petto
sull’aia i ragazzi giocavano
il calcio con la sfera di cuoio
l’interno non più ammasso di stracci
ma camera d’aria
gonfiata di espirazioni ripetute
spinte fino all’apnea,
liberavano al vento gli aquiloni
dai mille colori
rapportandoli al meglio
dei loro castelli in aria,
chiamati alla merenda
spalmavano sul pane la nutella
nasceva in breve la nuova
borghesia degli agrari
al contadino nulla di meglio parve
che infrangere le antiche tradizioni:
mise al bando
fidando in un domani meno gramo
l’annuale disagio della transumanza
Cerere dissacrata delle messi
scelse l’esilio tra le Drìadi
nella verde oscurità dei boschi
Le Pagliare
si fecero spazio
colmo di vuoto
e di buio,
s’adeguarono al viavai
degli ultimi pastori e boscaioli,
dei cacciatori accaniti
attorniati da segugi irrequieti
guaiolanti:
amaro allora
il rimpianto della razza
dei cani da pastore abruzzesi
fieri, lo sguardo leonino,
il collo adorno del monile
tempestato di chiodi antilupo
ma la memoria non è strada che si perde:
spesso tornavo a Le Pagliare
per riprendermi i boschi
per spigolare pagliuzze d’infanzia
. le volte che toccavo la vetta
del Sirente, mi davo premura
ricercarle dall’alto
accovacciate lontane nel verde
l’ultimo incontro qualche
autunno andato:
le pagliare fitte di silenzio,
svaporato l’effluvio dei fienili,
vuoti di grano i campi della piana,
spento tra i faggi il fumo
lento delle carbonaie,
manomesso il grande cerchio
del pozzo – quasi un monumento –
che nell’ora serale dell’abbeverata
evocava momenti d’elegia
il ricordo non era che il rimpianto
d’un mondo piccolo ma probo
segnato
di verità mutevoli
e fugaci
come gli anni
° ° °
Oggi nella luce
d’agosto dove
il Sirente svetta
e tocca il cielo,
m’è dato
– sorte benevola –
rivisitare Le Pagliare
tornate in altre
forme ad annunciarsi
a meglio dispiegare l’evento
una premessa
doppiata la boa del terzo millennio
nei borghi del medio corso dell’Aterno
accadeva un prodigio: si propalava
un “sentito dire” di talune
pietre che cantano:
quelle d’un monastero-fortezza
o d’un chiostro angioino,
di alcune chiese romaniche
o di Santa Maria ad Cryptas
– piccola Scrovegni dell’Abruzzo -,
o dei tanti borghi segnati di storia
un evento
inatteso
– pronube le Muse –
volto a celebrare in grande
la grande musica
dalla solare dimora sul Parnaso,
le Celesti Sorelle,
Euterpe e Polimnia per prime,
lo sguardo al Gran Sasso, cercavano
avvistare una gentile
figura di donna
pianista di fama
devota interprete di divine armonie
come in gioco
trovarla
andarle incontro
proclamarla in letizia
Maestro Concertatore e Direttore
delle pietre del miracolo
vero è che un musicista di talento
è persona ben necessitata
pertanto alla prescelta dalle Muse
altro non parve ammodo
che abbracciare l’intrigante profferta
così ebbe inizio
PIETRE CHE CANTANO
sede inaugurale della prima
edizione il monastero
di Santo Spirito d’Ocre
innalzato al tempo dei secoli bui
passato tra le fiumane dei canti gregoriani
si apriva alla tradizione delle orchestre
romantiche, recepiva la lezione di Vienna,
accordava risonanza ai legni di Cremona
da allora a seguire edizioni-eventi
ogni estate
anno dopo anno il Festival
conquistava altri borghi,
riscopriva luoghi d’incanto
dove meglio esprimersi
una stagione
la scelta propizia
in alta quota,
sul Sirente
ed ecco le Pagliare confarsi
auditorium
al sole al vento
per l’ascolto
lontano dai teatri,
per il concerto nel cuore
della montagna, sotto
le nuvole
corde d’arpa si tesero
tra una pagliara e l’altra
ad ancorarle a una chiesetta madre
semplice senza vetrate come
si conviene tra i monti
destinata al pari d’una cattedrale
ad accogliere i concertisti
– Maestri e Allievi –
impegnati a confrontarsi
con gli autori in programma
il primo concerto sul Sirente
prese vita nel segno
di Haydn e Mozart, di Bach e Ravel
il vasto mosaico
delle pietre che cantano
s’arricchiva d’un tassello
prezioso: Le Pagliare di Tione
i borghi del Festival
con vanto accoglievano il nuovo
sodale insieme nel novero
di Ravello e Spoleto
di Stresa e Ravenna
del maggio musicale sull’Arno
la cultura delle pagliare
non rischia più di perdersi
si trasforma
sorridono le Muse
l’Elicona e il Parnaso
salutano il Sirente
la linea dei monti
si colora di nuove stagioni