Antropocene – l’epoca umana

di Carmen Marinacci | 05 Febbraio 2023 @ 05:30 | RECENSIONI
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Benvenuti nell’Antropocene. No, non è un nome coniato da George Lucas  di  Guerre Stellari, ma l’epoca geologica in cui, secondo gli scienziati dell’Anthropocene Working Group, stiamo vivendo. Ebbene sì, l’uomo, con la sua invadente ed egocentrica presenza, è riuscito ad insinuarsi nella storia della Terra, le cui fasi finora sono state scandite dalla lunga formazione e trasformazione del suo scheletro, da quello che ci hanno raccontato le sue invincibili rocce ed i suoi preziosi fossili.

Ma questa volta non si può parlare di  evoluzione. I cambiamenti, spesso irreversibili, imposti dall’uomo, stanno distruggendo  un ecosistema perfetto, che da 4.5 milioni di anni lo tiene in vita, senza chiedere nulla in cambio. Ci stiamo impossessando di qualcosa che non ci appartiene. L’ospite sta derubando nella casa di chi lo ha accolto. 

Con il docu-film Antropocene-L’epoca umana diventiamo testimoni oculari di un delitto che noi stessi stiamo commettendo.

I registi  Jennifer Baichwal, Nicholas de Pencier ed il fotografo Edward Burtynsky, ci conducono nella nuova accezione estetica del pianeta in cui viviamo.

Anche se accompagnato, nella versione italiana, dalla voce narrante di Alba Rohrwacher, la fotografia parla (grida) – da sé. E’ un viaggio attraverso 6 continenti e 20 Paesi, che in maniera potente, e senza possibilità di replica, ci consegna il conto di ciò che stiamo facendo, ad un passo da noi, a 1000 km da noi, dall’altra parte del mondo.

La regia è crudelmente cinica; introduce scenari con riprese grandangolari, così da rendere ben chiari gli effetti su “larga scala”. Ma la loro -nuova- fisionomia, per quanto inverosimile, ne rende difficile la definizione. Una gradazione della desolazione. Foreste che diventano deserti; deserti che diventano montagne; montagne che diventano crateri. Con un unico comune denominatore. Si toglie terra alla Terra.

Ecco che poi, però, si scende nel particolare. E l’orrore diventa tangibile.

Si parte dalla riserva di Ol Pejeta, in Kenia, per assistere al rituale della cremazione di tonnellate di zanne di elefante. Cumuli infuocati di 100 tonnellate di avorio, attraverso cui uomini e donne grati e fedeli alla terra a cui appartengono, scelgono di sottrarlo al commercio illegale. Preferiscono donare un ultimo barlume di dignità a questi esseri incolpevoli: bruciare quello che gli è stato strappato, pur di evitare che diventi un cimelio da esibire.

Dall’Africa ci spostiamo a Norilsk, in Siberia. La regione ai confini della fine terrestre è una delle città più inquinate al mondo. Altro che distese innevate, non c’è spazio che non sia occupato dall’industria mineraria per l’estrazione del nichel. Il colore del ghiaccio è sostituito dal rosso delle fiamme incandescenti per la fusione dei metalli. Ma la contaminazione geografica non basta, diventa culturale e sociale. La vita ruota intorno e dentro la fabbrica. Il grigio prevale, i colori sono un ricordo, o anche solo un’idea. No c’è altra identità se non quella operaia. Alla festa cittadina i bambini non salgono sulle giostre, ma su ruspe e trivelle.   

Arriviamo in Europa. Si stringe il focus. Toscana. Carrara. Sì. Il marmo. Uno dei simboli per proclamare la nostra “eccellenza”. Ma a quale prezzo? Sulle note del Don Giovanni di Mozart, escavatori strappano alla montagna pezzi del suo corpo, che, inerme, tenta la sua resistenza. Pietra meravigliosa usata dal Michelangelo per il suo David, usata oggi per imbarazzanti copie del suo David.

Si vola in Germania, nel paesino di Immerath, grazioso borgo di poco più di mille anime nella Vestfalia; compare una chiesa, grazioso edificio in stile neo gotico, denominata  la cattedrale di Immerath. Pensi…finalmente la bellezza che vince. Per un attimo si torna a respirare. Gli occhi si addolciscono. Ma no. Tornano a sgranarsi. Arriva la ruspa. Arriva lo scempio. La cattedrale era nel posto sbagliato. C’è bisogno di divorare altro spazio per allargare la gigantesca miniera di lignite a cielo aperto che oramai ha anestetizzato lo sguardo. Escavatrici di 12000 tonnellate, capaci di spostarsi; draghi sputa fuoco e divoratori di ogni forma  si trovi sul loro cammino.

Canada. Finalmente una foresta. Finalmente ossigeno. Finalmente vita…suoni armoniosi…un cinguettio. Ma no. Irrompe il rumore di una motosega. Un ennesimo gigante sta cadendo, come tutti i suoi compagni. Colonne portanti del respiro di madre natura che diventano vegetali da macello.

Ma non ci siamo fermati alla superficie. Abbiamo toccato il fondo…anche quello della barriera corallina. Barattiamo ossigeno con anidride carbonica; le temperature salgono, le acque si acidificano. I colori brillanti dei coralli si sbiancano.

E non potevamo mancare noi. Dandora. Kenya. No, non è una città. O almeno, non lo è più. No, non ci sono fabbriche. Non ci sono miniere. Ci sono montagne, colline, mari…ma fatti solo di rifiuti. Qui sorge una delle più grandi discariche del mondo. Abbiamo tolto ogni dignità anche alla nostra stessa specie. 250.000 uomini e donne che vivono di quello che non serve più, di quello che non è più.  Come i loro corpi e le loro anime.

66 milioni di anni fa, un enorme asteroide si schiantò sulla penisola dello Yucatán. Distrusse ogni cosa. Da quella distruzione madre natura ha creato nuove opportunità.

Oggi siamo noi quell’asteroide. Ma stavolta, stiamo creando per distruggere.

Forse siamo ancora in tempo. Interrompiamo la catena prima che ci soffochi.

Selezionato da importanti kermesse cinematografiche, come il Sundance e il festival di Berlino, in Italia  vince il premio del pubblico al Cinemambiente.

Su Raiplay, Sky ed Amazon Prime.

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