di Anna Maria Colonna – Se il Gran Sasso «mette il cappello», meglio non avventurarsi lassù. Il modo di dire abruzzese suona come uno strano avvertimento. In realtà, raggiungere le alte vette quando si vestono di nuvole può diventare davvero pericoloso. I temporali sono improvvisi e tutto assume un unico colore. Quello della pioggia che non lascia scampo, rendendo invisibile l’intero paesaggio. E mancano, tra l’altro, grotte e cavità che possano fungere da riparo sicuro. Qualche volta, in cima, il cielo appare azzurro, mentre sotto, a due passi, sta piovendo. Succede quando le nuvole abbracciano i monti per metà.

Molti conoscono il Gran Sasso come ghiacciaio degli Appennini. Il paesaggio, intorno, è un’immensa distesa, verde o bianca a seconda delle stagioni. Man mano che si sale, la temperatura scende, ed anche in estate bisogna indossare la felpa. Gli abruzzesi trascorrono ferragosto ai piedi della montagna, nella conca di Monte Cristo, ad oltre 1400 metri d’altezza, o nell’altopiano di Campo Imperatore, a circa 2000 metri. È la giornata della carne arrosto, dedicata al profumo degli arrosticini bollenti. Entrambe le località si raggiungono da L’Aquila viaggiando in automobile per circa mezz’ora.

È piena estate quando visito questi posti incantevoli. Imbocchiamo per un tratto l’autostrada e ci ritroviamo alla base della funivia del Gran Sasso. Bancarelle, bar, strutture ricettive e turistiche fanno da cornice al luogo, un bellissimo bozzetto dipinto a mano dalla Natura e dalla fantasia dell’uomo. Il vento leggero porta via i pensieri, facendo posto alla voglia di curiosare fra uno scorcio e l’altro. Provo ad immaginare queste distese innevate, piste sciistiche invernali. Le nuvole sembrano nascondersi dietro aguzzi spuntoni di roccia. Non sono cappelli, ma piccole ciocche innocue e capricciose che rendono il paesaggio particolarmente bello.

Continuiamo a salire con l’auto fino a fermarci su una piazzetta panoramica. 1400 metri. Monte Cristo. Parcheggiamo. Siamo senza parole. Davanti a noi, l’immenso. Il verde e l’azzurro si mescolano su una tavolozza di terra e di aria. Le vette guardano le vallate arrossire sotto i raggi del sole. Ma dobbiamo continuare il percorso, perché ci attendono altre sorprese. Non possiamo sostare a lungo.

La macchina fa fatica a salire, difficile distogliere lo sguardo dal panorama circostante. Il Gran Sasso è la bussola che ci sta conducendo a Campo Imperatore, uno degli altopiani più vasti d’Italia. L’alpinista fiorentino Fosco Maraini lo paragonò alla valle di Phari Dzong, a 4200 metri, sulla via tra l’India e Lhasa. Lo definì piccolo Tibet. Circondato dalle vette appenniniche Scindarella, Monte Portella, Monte Aquila, Corno Grande, Brancastello, Torri di Casanova e Monte Prena, Campo Imperatore è stato modellato da ghiacciai, neve e alluvioni. Pascoli sterminati fiancheggiano la strada. Parcheggiamo per osservare da vicino un gruppo di mucche e cavalli liberi. Sembra di stare fuori dal mondo.

Il silenzio è interrotto dalla voce dei tanti visitatori che incontriamo a Campo Imperatore. Qui, nell’albergo-rifugio che spicca tra le vette, fu imprigionato Mussolini. Una breve sosta nella chiesetta della Madonna della Neve e nel giardino botanico alpino. Sguardo veloce all’osservatorio astronomico. Tempo necessario a riprendere fiato. Stiamo per imboccare il sentiero che conduce al rifugio «Duca degli Abruzzi», a 2388 metri d’altezza. Prepariamo scarpe e piedi, la base è a circa 2000 metri. La fatica viene ricompensata dall’incantevole paradiso che si apre davanti ai nostri occhi increduli. Restiamo sdraiati sull’erba per più di un’ora, con la voce del vento alle spalle. La discesa si prospetta rapida. Ci attendono gli arrosticini.

Il sole sta per tramontare e questo mi distoglie dal pensiero di imboccare il sentiero che conduce al rifugio Garibaldi, verso Campo Pericolo e il Corno Grande. Provo a ripercorrere i diversi momenti della giornata. Sono tutti con me. Li porterò in Puglia con la certezza che prima o poi saranno restituiti all’Abruzzo.

