27 gennaio, Giorno della Memoria: L’Aquila, unica provincia abruzzese senza campi
di Padre Gregorio (Fausto D’Addario) | 27 Gennaio 2023 @ 06:00 | RACCONTANDO
Il 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria, istituito per non dimenticare l’Olocausto, una delle pagine più sconvolgenti della Seconda guerra mondiale. Anche in Abruzzo furono allestiti campi di concentramento e luoghi di internamento. All’Auditorium del Parco de L’Aquila Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, ha ribadito agli studenti delle scuole abruzzesi che ancora oggi “violenza e antisemitismo pervadono la società”. Da qui il dovere di lavorare sulle giovani generazioni per preservare la memoria dell’Olocausto, perché “per ragioni anagrafiche le persone che hanno vissuto sulla propria pelle l’esperienza dei campi di sterminio ci stanno lasciando”.
Olocausto è una parola greca che indicava i sacrifici antichi, dove la vittima veniva interamente consumata dal fuoco. Shoah per gli ebrei, ossia catastrofe, sciagura, distruzione. Oltre sei milioni di ebrei vennero uccisi sistematicamente dal regime nazista e dai suoi alleati, insieme ad altri gruppi di cui veniva asserita l’inferiorità razziale o biologica, come i Rom, le persone con disabilità, gli omosessuali e i prigionieri di guerra.
Al seguito della Germania, anche l’Italia, con i provvedimenti legislativi del 6 ottobre 1938 per la difesa della razza, divenne un paese ufficialmente antisemita. Ma in Italia un vero problema ebraico non esisteva: nel 1938 risiedevano sul suolo nazionale 46.656 ebrei. In Abruzzo ne furono censiti solo 112, la metà a L’Aquila; a Teramo erano soltanto tre.
Con lo scoppio della guerra, nel 1940 furono dati al Ministero dell’Interno i poteri per la costruzione dei campi, che finirono con il concentrare tanto gli ebrei, quanto oppositori politici e prigionieri di guerra, in strutture detentive già esistenti o realizzate appositamente.
L’Abruzzo fu subito preferito per le sue caratteristiche: l’isolamento, l’impervietà dei luoghi, i pochi collegamenti viari, la scarsa politicizzazione del tessuto sociale fecero sì che la regione – unitamente alle Marche e al Molise – si ritrovasse ad avere quasi la metà dei campi italiani, come sottolinea Nicola Palombaro. Ben 15 nel solo Abruzzo (diventano 20, se teniamo conto che all’epoca il Molise era parte del territorio abruzzese):
- Città Sant’Angelo in provincia di Pescara;
- Casoli, Chieti, Vasto, Lama dei Peligni, Lanciano e Tollo nella provincia di Chieti;
- Civitella del Tronto, Tortoreto, Corropoli, Nereto, Alba Adriatica, Notaresco, Tossicia, Isola del Gran Sasso in provincia di Teramo.
Quella dell’Aquila sarà la sola provincia abruzzese dove non verranno istituiti campi di concentramento.
Una sessantina in tutta la regione furono invece i campi di internamento, adibiti alla reclusione degli oppositori del regime fascista, in una situazione assimilabile al confino di polizia. In ogni caso i campi di concentramento fascisti non sono da associare ai lager del III Reich e alle loro atrocità paragonabili, ma ciò non toglie che siano stati luoghi di razzismo, umiliazione e violenza. Erano piuttosto luoghi circoscritti e sorvegliati all’interno dei quali, in strutture preesistenti o costituite ex novo, i reclusi venivano segregati e privati dei loro diritti. Si ricorreva volentieri a scuole, conventi e monasteri (coma la Badia celestiniana a Corropoli e la Basilica di San Gabriele a Isola del Gran Sasso), oppure a edifici privati, ville di campagna, ospizi e alberghi. Questi campi rientravano in quel generale progetto di rivoluzione antropologica vagheggiata dal fascismo per rigenerare il carattere degli italiani: tutti gli oppositori andavano estirpati dalla società, cosa che comportò l’assunzione di forme discriminatorie nei confronti di tutti quegli elementi che erano percepiti come diversi o potenzialmente minacciosi.
I dati riportati da Giampaolo Amodei registrano una recettività piuttosto variabile dei campi:
- Civitella del Tronto, 200-230 persone;
- Chieti, 200;
- Vasto e Corropoli, 180;
- Nereto, 160-180;
- Città S. Angelo, 150;
- Isola del Gran Sasso, 135;
- Tossicia, 120;
- Tortoreto, 100-115;
- Notaresco, 100;
- Tollo, 90;
- Casoli, 80 -100;
- Lanciano, 55-70;
- Lama dei Peligni 60-65.
Nel complesso i campi abruzzesi potevano ospitare all’incirca 1915 persone, ma non erano infrequenti i problemi di sovraffollamento. Casoli fu un campo per ebrei, fino a quando nel 1942 non vennero sostituiti con prigionieri balcanici; a Vasto furono portati gli italiani antifascisti; a Tollo civili slavi; cinesi e zingari a Tossicia. Ma gli altri campi potevano accogliere unità in maniera eterogenea, come nel caso di Civitella del Tronto, dove furono internati indistintamente nemici, ebrei e apolidi.
Carenza di spazi, insufficienza dei servizi igienici, scarsa assistenza medica, umidità, freddo pungente d’inverno e mancanza di circolazione d’aria in estate, rendevano insopportabili le condizioni dei molti internati in quei campi. Del resto le condizioni dipendevano anche dall’umanità del podestà o del funzionario che li dirigevano. A Casoli – campo che nel 2018 fu visitato da Sergio Mattarella – i prigionieri vennero trattati con grande umanità dal direttore Mosè Ricci, che permise ai reclusi di girare per il paese indisturbati e di fraternizzare con gli abitanti. Anche a Nereto e a Civitella gli abitanti mostrarono una grande solidarietà. Situazione che dovette destare dei sospetti, se – come ricorda Giordano Bruno Guerri – nel 1942 a L’Aquila fu Mussolini stesso a richiamare il prefetto per la familiarità che gli abruzzesi mostravano nei confronti dei concentrati.
Alla periferia di Lanciano, presso Villa Sorge, venne istituito un campo di internamento femminile, che arrivò ad ospitare 75 recluse italiane e straniere, perlopiù ebree. Tra esse c’era una giovane ebrea viennese residente in Italia, Maria Moldauer Eisenstein, l’Anna Frank d’Abruzzo, che ci ha lasciato un diario romanzato della sua esperienza, L’internata numero 6. Forse l’unica testimonianza di un campo di concentramento fascista. Ma mentre Anna Frank muore, Maria si salva e fugge con il marito Samuel Eisenstein negli Stati Uniti. Da questo momento in poi non si è saputo praticamente più nulla di lei. Il libro fu da lei pubblicato in quella Roma diventata città aperta nell’ottobre 1944, dove descrisse con dovizia di particolari le difficili condizioni di vita e la convivenza con le recluse, insieme agli arbitri e ai soprusi che subivano. Il libro divenne introvabile e fu presto dimenticato, per essere riscoperto recentemente dal massimo esperto sui sistemi di internamento fascisti, Carlo Spartaco Capogreco.
Dopo l’arresto di Mussolini del 25 luglio 1943 l’Abruzzo si ritrovò diviso in due dalla Linea Gustav. Perciò dopo l’armistizio dell’8 settembre alcuni campi vennero chiusi, altri furono presi in mano dai tedeschi e altri dalla Repubblica Sociale Italiana. Notaresco rimase aperto con un solo internato fino al 1944. Alcuni reclusi, approfittando del caos, erano riusciti a darsi alla fuga, ma molti vennero catturati nei rastrellamenti successivi. Per circa 8 mesi e fino al Giugno 1944 l’Abruzzo fu teatro di operazioni militari.
Come rileva Costantino di Sante, l’ultimo campo di concentramento ad essere istituito in Abruzzo nel 1943 fu quello di Teramo, nella vecchia Caserma Mezzacapo, sostanzialmente sottoposto al comando militare tedesco. Si trovò ad ospitare partigiani, antifascisti e i semplici cittadini, tra cui donne e bambini, rastrellati dai soldati tedeschi. Rimase in funzione fino alla metà del 1944, quando si decise il trasferimento degli internati più a nord, a Servigliano (Ascoli Piceno).
Una pagina della storia abruzzese e italiana che spesso viene ingiustamente dimenticata. Proprio per questo a Chieti è stata recentemente inaugurata una mostra storico-documentaria presso il Palazzo della Provincia, I campi di concentramento fascisti in Abruzzo dal 1940 al 1943, e sarà aperta fino al prossimo 31 gennaio.