25 aprile: l’altra faccia della Resistenza, il ruolo delle donne
di Mario Setta
di Redazione | 23 Aprile 2020 @ 10:33 | RACCONTANDOLe donne ebbero un posto di rilievo nella vicenda dell’aiuto ai prigionieri alleati. Purtroppo, subito dopo la guerra, al momento dell’assegnazione dei meriti e delle colpe, il ruolo della donna, che non poteva essere negato, fu minimizzato con l’arma del ridicolo, svilito con insinuazioni offensive. Il maschilismo di cui era fortemente impregnata la società dell’epoca assegnava alla donna due ruoli antitetici: santa o peccatrice. Ruoli, però, sempre secondari e comunque funzionali a quello primario assegnato all’uomo. Questo modello interpretativo ha fatto sì che molte donne, pur impegnate straordinariamente nell’azione umanitaria di soccorso dei prigionieri, temendo di non essere considerate sante, negarono o sminuirono la loro attiva partecipazione. Altre donne, invece, più battagliere e ribelli, che cercarono di far valere i loro giusti meriti, diventarono oggetto di campagne diffamatorie, dalle quali solo pochissime uscirono indenni. L’aiuto che fu dato ai prigionieri non si risolse soltanto nel dare il pane che non c’era, ma si manifestò concretamente e moralmente grazie a quella solidarietà tipica delle famiglie povere di mezzi ma ricche di affetti. È nel calore della famiglia, tra le mura domestiche che si opera la ricostruzione di personalità distrutte da anni di guerra e di prigionia. Trattati nuovamente da esseri umani in una nuova famiglia, i prigionieri rinascono a nuova vita. Ricominciano a sperare e a credere nel loro futuro.
Lo stesso John Furman, nella sua autobiografia Be not Fearful (“Non aver paura”, Garzanti, 1962) pone in rilievo la dedizione, il sacrificio, l’affetto, dimostrati dalle donne sulmonesi: Esterina (vedova Carabia), con il figlio Paolo, che abitava a Sulmona in via Mondello; Maria (Santilli, soprannominata Trippe de Lupe), il cui marito era Cesidio Valeri e il figlio Vincenzo, residenti in vico Breve; Marietta (Petrilli, soprannominata Papung), Ada, Ida, Concetta, Ione, Filomena, Anna, Teresina, ecc. Per tutte, basta l’esempio di Maria (Santilli), che dedica le sue migliori attenzioni ad un malato di eczema, Gilbert Smith. «Ma se mai – scrive Furman – di qualcuno al mondo, si sono potuti travisare la vera indole e il carattere, ingannati dall’aspetto esteriore e dagli atteggiamenti, certo questo avveniva con Maria. In realtà, Maria era un angelo che avrebbe diviso la sua ultima crosta di pane con un cane affamato; assisteva Gil, uno straniero a lei completamente estraneo, in condizioni tali che avrebbero costretto anche molte madri, vinte dal raccapriccio, a distogliere loro malgrado lo sguardo dai figli pur teneramente amati, e gli dedicava tutte le sue cure con una destrezza e un’affettuosità da ispirare un senso profondo di consolante fiducia».
Lola Carabia-Spagnoli, cognata di Gino Ranalli, ricorda ancora quel tempo in cui viveva con la famiglia al Borgo Pacentrano. Nella loro casa era nascosto Albert Duquate, un prigioniero americano, definito da Furman “impulsivo, sempre pronto ad inventar facezie, ex radioannunciatore”. Lola aveva allora venti anni, essendo nata il 16.10.1923. Con la sorella Ivana, che diventerà poi la moglie di Gino, ed altre amiche rischiavano la vita per aiutare i prigionieri. «Un giorno – racconta – sono andata al Comune, dal segretario Ferri, per ritirare una carta di identità falsa per Henri Payonne e l’ho riportata alla famiglia Vecchiarelli, a vico Breve, perché fosse consegnata all’interessato. Dopo qualche tempo venni a sapere dallo stesso Ferri il grave rischio che avevo corso, perché i tedeschi volevano sapere se mi conosceva e lui aveva risposto negativamente, altrimenti mi avrebbero arrestata». Henri Payonne, francese, esponente del movimento di De Gaulle “France Libre” era stato aiutato ad uscire dal campo di concentramento dal barbiere del campo, Vincenzo Pistilli, e nascosto in casa di Roberto Cicerone, soprannominato “Pazzone”, uno dei personaggi più attivi, insieme a Mario Scocco nell’organizzazione per l’ospitalità e l’aiuto ai prigionieri fuggiaschi. Ma anche una simile struttura, assolutamente informale, aveva bisogno di persone che tenevano collegamenti, distribuivano incarichi, realizzavano progetti. Una cerchia di persone direttamente impegnate nello svolgimento di compiti spesso altamente rischiosi. Viene organizzata la fuga di decine di prigionieri ricoverati in ospedale e fatti calare di notte attraverso le finestre, mediante una corda formata da lenzuola annodate. Furono accumulate provviste di generi alimentari, vestiario ed altro materiale da mettere a disposizione dei fuggitivi. Ci furono anche azioni di sabotaggio nei confronti dei tedeschi.
Si stabilirono rapporti affettivi tra ospiti e ospitanti, tra prigionieri stranieri e gente del luogo. Nascondere o “tenere in casa”, come allora si diceva, uno o più prigionieri significava stabilire un dialogo parlato o gestuale. La convivenza nella stessa casa offriva naturalmente l’occasione di conoscersi, allacciare legami di amicizia e di affetto. Furman sottolinea il fattore affettivo esistente in questa condizione di “complicità”. La cortesia e la bontà della gente erano tali che spesso i coniugi cedevano il loro letto matrimoniale per far riposare più comodamente i prigionieri, che venivano rifocillati, rivestiti, aiutati in ogni modo. Gli episodi in merito sono così numerosi che è impossibile enumerarli tutti. Contestualmente all’aiuto dato ai prigionieri, nasce spesso un sentimento più forte, più coinvolgente. È il sentimento dell’amore. E non c’è da meravigliarsi se tra prigionieri, giovani e spesso piacenti, e donne semplici e affettuose sia nato l’amore. Il motto della propaganda fascista Dio stramaledica gli inglesi non sembrava aver sortito nessun effetto. La gente aveva continuato a vedere nell’altro, se disarmato e bisognoso, povero e oppresso, vittima e perseguitato, un possibile amico e non un nemico da eliminare.
Roger Absalom, nella presentazione accurata e approfondita al libro di Simpson in italiano, scrive: «La forma più completa di identificazione tra prigioniero e ospitante avveniva quando l’ex prigioniero si immergeva totalmente nella grande famiglia contadina fino al punto di diventare una specie di parente adottivo. Questo fenomeno si produceva solo nelle condizioni di accoglienza e di rapporti familiari particolarmente idonei, ma non dipendeva necessariamente dalle condizioni materiali propizie: anche dove la cultura contadina era meno omogenea, si riscontrano casi di identificazione in cui la “personalità militare” del prigioniero veniva pressoché dissolta. In tali casi la “pressione psicologica” si spingeva oltre la generica simpatia e il garbato sfruttamento di essa: il prigioniero diventava figlio, fratello, fidanzato “fittizio”, facendo scaturire un processo reciproco di assorbimento e di assimilazione. Dalle fotografie scattate allora e rimaste come patetiche testimonianze nei fascicoli dell’archivio dell’ASC, si vede il prigioniero in mezzo a tutta la famiglia, abbracciato spesso alla “madre”, alla “fidanzata” o al “fratellino”, vestito come gli altri, in un’atmosfera di caldo affetto (sempre dignitoso, però) “famigliare”. A guerra finita, il prigioniero “assimilato” continuava per anni a soffrire un’intensa nostalgia della “famiglia” abbandonata e trovava grigio e insoddisfacente l’ambiente in cui era tornato a vivere. Rievocava in patetiche lettere “i bei tempi… della guerra”, costellati da semplici affetti, innocenti avventure (quasi da boyscout), godimenti materiali intensi, perché effimeri e rubati alla sorte, segnati soprattutto dal sorriso e dal riso, caratteristiche della civiltà contadina, pastorale e carbonara dell’alto Appennino (civiltà della veglia, della novella, del cantastorie, della beffa al potente e allo sciocco) e giustamente indicata da Braudel come incrollabile sostegno della ragione umana in un mondo impazzito. “Rido, dunque sono”: forse è questa la frase braudeliana che contiene l’essenziale spirito della pur pericolosa sopravvivenza, vissuta insieme da contadini e prigionieri».
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Iride Imperoli-Colaprete
“Donna vibrante di vita e appassionatamente attratta da ogni forma di piacere che l’esistenza poteva offrirle” la descrive John Furman. Nasce a Valmontone, in provincia di Frosinone, il 23.4.1918 da Carlo Imperoli e da Paolina Masciangioli. Il padre muore quando Iride ha pochi mesi. La madre, originaria di Sulmona, sposa in seconde nozze un vedovo con 6 figli, Stefano Marcantonio, dal quale avrà un’altra figlia, Maria. Iride risiede a Sulmona e frequenta la scuola elementare fino alla quinta. Le sarebbe piaciuto continuare gli studi, imparare la musica o studiare canto. Trascorre la sua giovinezza tra Roma e Sulmona. Consegue il diploma di sarta, imparando l’arte alla scuola di Teresa Taglieri-Davini. Va ad insegnare a Rivisondoli. Nel periodo della guerra, abita a Sulmona in via del Borghetto. Finita la guerra, sposerà Ettore Colaprete. Un pomeriggio del settembre ’43, incontra a passeggio nella villa comunale di Sulmona un ufficiale italiano, interprete per conto degli ufficiali inglesi. È presente anche un Generale inglese prigioniero a Villa Orsini che, felicemente sorpreso del fatto che Iride possa andare periodicamente a Roma, le propone di portare un biglietto all’ambasciata inglese presso la Santa Sede. Iride accetta e dopo qualche giorno riceve il biglietto da parte del Generale.
«Voleva addirittura darmi anche l’anello d’oro che portava al dito, ma io rifiutai», aggiunge. A Roma, Iride si reca da Mons. O’Flaherty e gli consegna il biglietto, che aveva prudentemente nascosto in mezzo ad un gomitolo di lana. Le propongono di mettersi a servizio dell’ambasciata per mantenere i contatti con i prigionieri di Sulmona. Iride accetta. Si apre, quindi, un’altra via di fuga, oltre a quella dell’attraversamento delle montagne per raggiungere le linee alleate. Varie volte, tre o quattro, ma tutte rischiose e drammatiche, Iride Imperoli riuscirà ad accompagnare in treno da Sulmona a Roma, a piccoli gruppi, gli ex prigionieri del Campo 78, muniti di documenti falsi, rilasciati dal personale del Comune di Sulmona.
J.P. Gallagher, nel libro La primula rossa del Vaticano, (Mursia, Milano 1967), scrive: «Iride aveva svolto un lavoro magnifico per i fuggiaschi… sembrava capace di riuscire in tutto quel che decideva di fare…». E William Simpson: «Iride si stava comportandosi magnificamente nei nostri confronti e le eravamo profondamente grati.» (La guerra in casa 1943-1944, La resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano, Qualevita, 2004). Absalom ne tenta un profilo psicologico: «Un altro fuggiasco (…) era il capitano William Simpson, uno scozzese che sarebbe diventato l’altro principale agente di Derry nella Rome Organization, e infine il primo capo dell’Asc (Allied Screening Commission). Sia Furman che Simpson presero il primo contatto con Derry tramite Iride, una ragazza di Sulmona la cui personalità e la cui fortunosa carriera a servizio dei fuggiaschi e delle organizzazioni a loro favore si prestano bene ad illustrare l’attrattiva che il coinvolgimento in un tale lavoro aveva per i membri “marginali” della società, abituati ad assumersi dei rischi e generalmente poco rispettosi delle autorità costituite, ma spesso vulnerabili da un punto di vista psicologico: essi cercavano, dal loro improvviso e imprevisto contatto con la guerra clandestina, materiale per le loro fantasie di personale realizzazione, di avanzamento sociale e perfino di redenzione».
Queste, le deduzioni che lo storico Roger Absalom trae dal suo lavoro di ricerca. Al contrario, dall’analisi dell’ambiente, dalla biografia dei personaggi, dal contatto diretto con i protagonisti sopravvissuti, ci sembra di poter desumere che non si è trattato di particolare “attrattiva”, ma di senso di responsabilità, di orgoglio dei poveri che hanno dimostrato, in un particolare momento, la loro dignità. Spesso, invece, non pochi inglesi fecero pesare la loro superiorità. La stessa Iride ricorda che John Furman conservava sempre una certa alterigia da gentleman, dimostrando diffidenza verso gli italiani che trattava spesso con aria di sufficienza. Al di là di una diversità di valutazione, i fatti e le persone che ne furono coinvolte restano fatti e persone reali. L’analisi di un fenomeno così diffuso e comunque collocato entro confini geograficamente ristretti può condurre a due forme estreme di giudizio: l’esaltazione retorica o la riduzione sprezzante. Entrambe da evitarsi. Ed è possibile solo nella misura in cui ci si attiene scrupolosamente alla nuda verità. Nel 2004, a Sulmona, in occasione della presentazione, del libro di William Simpson, in traduzione italiana, lo storico Roger Absalom ha avuto modo di incontrare Iride Imperoli Colaprete e di chiarire molti aspetti di quelle vicende. Un incontro amichevole e commovente tra il grande storico e la straordinaria protagonista. Iride è scomparsa il 9 agosto 2006. Resta, in molte testimonianze di ex-prigionieri, la memoria delle sue gesta.
Maria Di Marzio
Nata a Campo di Giove il 6.12.1906, era una donna di paese, una di quelle donne del passato, che dovevano lavorare come gli uomini per “mandare avanti la casa”, perché i mariti stavano in guerra. Il marito di Maria, Matteo Di Marzio, era stato infatti richiamato. Avevano 4 figli, un maschio e tre femmine. Maria doveva lavorare la campagna, pascolare le pecore, eseguire le incombenze domestiche. Nell’autunno del 1943 incontra i prigionieri fuggiaschi. Racconta: «Venivano dalla montagna e arrivavano alla mia casa, perché si trovava fuori dal paese, in cima al colle. Una volta vennero in sette. Dovetti trovare sette vestiti e dar da mangiare a sette bocche affamate. Li feci sistemare nella soffitta, dove c’era una terrazzina da cui potevano affacciarsi. Gli zaini che portavano li abbiamo nascosti sotto terra. Al mattino portavo loro il latte e si facevano la zuppetta. Stettero a casa quaranta giorni. Eravamo, a volte, una ventina a mangiare, perché arrivarono anche altre persone, che però volevano essere servite e riverite. Mi dicevano di mandar via i prigionieri, ma io rispondevo: “questi non li posso proprio cacciare”. Fu così che una di queste persone va a Sulmona e fa la spia. Il podestà, don Ciccio Puglielli, mi fa dire di allontanare i prigionieri. Mio figlio però li accompagna in una capanna, vicino a Fonte Romana e portavamo loro da mangiare. Arrivano i tedeschi e mi chiedono dove sono i prigionieri. Io rispondo che non so niente. Mi danno tre giorni di tempo per consegnarli. Vengono di nuovo e questa volta mi puntano in petto il fucile dicendomi di parlare e di dire dove sono i prigionieri. Mi dicono che bruceranno la casa e che mi ammazzeranno. Mentre mi tengono ancora il fucile puntato sul petto, rispondo: “ammazzatemi pure, ma io non ho visto nessuno”. La gente che stava vicino si era impaurita. Ma io continuavo a dire di non conoscere nessun prigioniero. Alla fine i tedeschi non spararono e mi lasciarono, andandosene via. Finita la guerra mi hanno dato un premio di quattromila lire. Non so se fosse quella la somma che mi spettava. D’altra parte io non so molte cose. I’ sacce fa’ sole la firme pe’ jì ‘ngalere (io so fare solo la firma per andare in galera)». Maria Di Marzio ha ricevuto un attestato di benemerenza «perché fiera figlia della generosa terra d’Abruzzo durante l’occupazione nazista 1943-1944 con rischio della incolumità personale aiutò, incoraggiò e difese dal tedesco invasore sette ufficiali alleati evasi dal campo di concentramento di Fonte D’Amore». Le è stata inoltre conferita la médaille de la Reconnaissance Française, perché gran parte dei prigionieri salvati erano di nazionalità francese. Alcuni prigionieri sono tornati a rivederla.
Cfr. “Terra di Libertà, storie di uomini e donne nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale”, a cura di Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta, ed. Tracce, Fondazione Pescarabruzzo)